La Spagna, l’Italia e la Grecia sono tra i paesi europei che mostrano oggi la maggiore difficoltà culturale ad approcciarsi alla morte, al lutto e al cordoglio.
Le esperienze dei genitori colpiti da lutto perinatale in questi tre paesi sono infatti ancora molto lontane da quelle narrate dai genitori dei paesi anglosassoni, ma anche, sorprendentemente, da quelle narrate dai nostri nonni.
“Un lutto di cui non si parla è un lutto che non guarisce”
Proverbio spagnolo
a Gisella, a Veronica, a Elena.
A parità di lutto e di evento, infatti, fino ai primi anni sessanta, soprattutto nelle cittadine e nei piccoli paesi, era presente una radicata cultura “sociale” del lutto, per la quale chi faceva parte di una comunità partecipava al lutto altrui, bambini compresi, e chi era in lutto sapeva di poter contare sulla condivisione dei riti di commiato e sul sostegno, emotivo ma anche pratico, delle persone vicine.
I “riti” erano ben codificati, sia in relazione al corpo del defunto, sia in relazione al sostegno dei parenti e degli amici.
Era perfettamente ovvia, allora nel nostro paese come oggi nei paesi nordeuropei, l’importanza dello “stare accanto”, al dolente, mettendogli a disposizione il proprio tempo o le proprie energie, fisiche o emotive: era considerato normale fornire un aiuto pratico, e ripetuto nel tempo, e mantenere una rispettosa distanza (leggi: non intromettersi, e non scavalcare il dolente nelle sue decisioni relative al lutto e alla vita dopo il lutto).
Pensando al contesto di allora, mi viene da dire che la giusta distanza è una distanza attiva, permessa dallo stare accanto in modo vigile, aperto e disponibile, senza soverchiare le persone con i propri vissuti, i propri consigli, le proprie esortazioni a stare meglio. Senza dover persuadere, nè convincere. Accanto, ma non addosso. Sufficientemente vicino per permettere al dolente di apprezzare la nostra presenza senza sentirsi sballottato in emozioni o pensieri o decisioni fuori tempo, fuori luogo, fuori misura per la situazione acuta che sta affrontando.
A un certo punto, non so come, è accaduto che tre dei paesi al mondo culla della cultura, della letteratura, della naturale espressione passionale delle emozioni in tutte le arti e in tutti i contesti, (passionalità intesa come stile di vita, mi dicevano le colleghe Sands inglesi nel 2007, strabiliate che da noi il lutto perinatale fosse ancora un tabù), abbiano perso il valore della condivisione nel lutto.
I nostri nonni sono stati i primi a “ribellarsi alla morte”: troppi parenti e amici morti in guerra, troppa fame, troppo tutto. Hanno colto al balzo la palla del progresso, hanno pensato probabilmente di non “meritarsi” altro dolore, e si sono progressivamente allontanati dalla morte, estromettendola dalle case, estromettendo spesso anche la malattia “incurabile”, negando spazio ad altro dolore e ad altro lutto. Hanno agito in maniera opposta al proverbio spagnolo, tenendosi dentro, a volte per tutta la vita, brandelli di dolore sempre vivo, represso in un angolo, nascosto ma non sconfitto, ignorato bellamente, con tutte le conseguenze fisiche e psichiche del caso.
I riti funebri dagli anni settanta in poi sono stati spesso trasformati in “atti dovuti”, quando possibile sostituiti da telegrammi formali, da donazioni ed opere di bene, ed è progressivamente venuto meno lo spazio condiviso, che oggi si esaurisce in una visita al dolente al momento della perdita.
La generazione successiva, quella dei nostri genitori, è forse la prima a essere stata privata delle “parole” del lutto, a non avere esperienza storica di lutto socialmente condiviso, che restava una roba da vecchi, da bisnonne troppo religiose. La nostra generazione, quella dei trenta-quarantenni, si muove in un panorama ancora diverso rispetto a quello dei nostri genitori o zii. Siamo la generazione “protetta” per antonomasia dal dolore. Tenuta lontana, quanto possibile, dalla malattia e dalla morte, ed estromessa, “per il nostro bene” dai riti funebri, dai riti di commiato dalla vista del corpo morto.
La nostra generazione è quella che un giorno si è svegliata senza figlio, e senza il lutto per quel figlio.
Perché negli anni non solo si sono persi i riti sociali e condivisi, ma si sono perse anche la memoria e l’esperienza diretta, o narrata, di cosa è il lutto, e di cosa significa l’elaborazione del lutto. Che è scomparsa dal linguaggio comune, riservata ai soli “addetti ai lavori”, e divenuta sinonimo di debolezza, pericolo, disgrazia, danno irreparabile, persino malattia mentale. Il lutto è passato dall’essere parte naturale della vita privata e sociale, a “pericoloso” cancro da estirpare a tutti i costi. Si è cercato di trasformarlo in una malattia e di curarlo come tale, si è cercato di banalizzarlo come evento naturale cui non si deve dare peso (e chi lo fa, ha un problema). Si è cercato di offrire “cure specialistiche” per un evento fisiologico che solo se non elaborato ammala le persone.
Per evitare di ammalarsi di lutto irrisolto, e quindi per evitare di trasformare il lutto in depressione, ansia, e tutto lo spettro ben noto di malattie che tanto ancora oggi spaventano l’opinione pubblica, ma non abbastanza da stimolare l’opinione pubblica a prevenirle, sarebbe dunque auspicabile riflettere su tre punti:
- è necessario riportare il lutto in una dimensione sociale condivisa, in cui le persone che si incontrano dopo qualche settimana da un evento luttuoso non debbano annaspare per trovare parole o gesti adeguati al contesto sociale e relazionale in cui stanno vivendo. E’ necessario imparare dai nostri nonni la semplicità di gesti dimenticati, la narrazione intorno a questi eventi che sia testimonianza e non mero gossip.
- è necessario che il dolente compia un ulteriore sforzo e diventi responsabile di se stesso e del suo lutto, senza affidarsi al primo che passa, che sia un singolo “esperto” o una “comunità di genitori che condividono la stessa esperienza”, ricordando che proveniamo da un contesto in cui manca l’esperienza condivisa del lutto e della sua elaborazione, e in questo contesto è facile cadere in equivoci o in errori che anziché promuovere l’elaborazione del lutto la ostacolano.
- social non significa sociale. Siamo la generazione di “mezzo” quella tra le prime televisioni anni cinquanta e i “nativi digitali”. Molte di noi si sono affacciate a internet per disperazione sociale. Non trovando nulla di nulla che ci sostenesse nel nostro lutto nelle nostre città, consultori, ospedali, chiese, enti locali e via discorrendo, abbiamo aperto internet nel bisogno spasmodico di essere riconosciute, accolte, sostenute, con la “giusta distanza”, quella di cui sopra, patrimonio culturale dei nostri nonni. Volevamo qualcuno che usasse le nostre parole, quelle che rimbombano dentro quando esplode il lutto. Volevamo capire, approfondire da autodidatte, ahinoi, cosa si sente dentro, quando avviene un lutto, se è normale, cosa aspettarsi e su cosa fare leva per stare meglio. Abbiamo pensato che da sociale a social il passo fosse breve e la differenza minima. Se il mio insegnante di karate mi guarda con l’occhio spaventato e mi esorta a stare meglio e a farne un altro, se la mia mamma mi chiede di non piangere perchè così faccio stare male anche lei, se sono sola, e mi senso disperata e incompresa, ecco che il mio sociale non esiste e il social è così attraente da sembrarmi vero, da sembrarmi sicuro, per me e per il mio lutto.
Mentre dentro di noi il lutto esplode e ci fa a brandelli capita spesso che, per eccesso di amore e preoccupazione nei nostri confronti, o per eccesso di paura del lutto o per pura indifferenza per un lutto ritenuto “minore”, le persone prive della cultura del lutto e del linguaggio del lutto non facciano la loro parte corale, e sociale per aiutarci ad elaborare. Non sanno dove mettersi, avendo perso le coordinate sociali per esprimere il cordoglio e partecipare a un rito. E poco importa se sono i migliori amici, le donne con cui ho passato gli ultimi anni della mia vita, il prete che mi ha sposato, il medico che è come un fratello, o persino mio marito.
L’analfabetismo del linguaggio del lutto colpisce tutti, ci ha colpito tutti nel tempo a causa della mancanza di una cultura condivisa. Molte mamme hanno ammesso che, prima che capitasse a loro, loro stesse non avevano mai riflettuto sul lutto perinatale, sull’impatto che ha nella vita delle persone, e su come è meglio avvicinarsi a una persona dolente.
Questa inesperienza sociale ci appartiene culturalmente e dovremmo sempre tenerla presente, sia a livello sociale che soprattutto a livello “social”:
- non è sufficiente avere esperito lo stesso tipo di lutto per avere esperienza di elaborazione del lutto, così come,
- l’esperienza individuale, condivisa in gruppo ha un immenso valore solo se lo scopo della condivisione è elaborare il lutto, operazione complessa che richiede fino a tre anni del proprio impegno e della propria vita dedicati a questo e non mantenere eternamente viva una parte della propria identità, quella della madre dolente che alle madri appena arrivate racconta il proprio lutto come se fosse il lutto universale, come se tutti i lutti fossero così, come se il suo punto di vista fosse l’unico possibile.
Rispetto al contesto sociale, rappresentato da persone diverse con modi e gesti diversi e vite diverse, riunite intorno al dolente perché è il dolente l’oggetto di cura e di attenzione primario, il contesto social, con il proliferare di gruppi soprattutto su facebook, non ha come oggetto di attenzione primaria la cura del dolente, perché è composto interamente da dolenti, che continuano a dolere e sono in una fase acuta del loro lutto, e spesso non hanno gli strumenti professionali o esperienziali per “facilitare il gruppo” e quindi promuovere una sana elaborazione del lutto, chi prima e chi dopo, in tutti i membri.
Il lutto, per essere adeguatamente elaborato, ha bisogno di molti strumenti. Un’esperienza condivisa non è sufficiente, se non sostenuta da una buona cultura del lutto e dell’ascolto, da una oggettiva avvenuta elaborazione del proprio lutto personale e dal recupero di tutti quei passaggi esperienziali ben noti ai nostri nonni e del tutto sconosciuti a noi.
Un lutto di cui non si parla con preparazione, rispetto e cultura, è un lutto che non guarisce.
Claudia Ravaldi
Medico psicoterapeuta
Fondatore e Presidente Associazione CiaoLapo Onlus