“Signora, lo diciamo per lei, meglio non affezionarsi troppo”
Ho appena partorito.
Ho partorito ancora prima di fare la mia valigia per l’ospedale, la lista delle cose utili sta ancora là, appesa al frigo.
Ho partorito dopo un travaglio fulmineo e fulminante, neanche mi sono resa conto di cosa stava succedendo.
La mia formichina grinzosa è nata di corsa.
Pesa 685 grammi la mia formichina.
Ha delle mani piccolissime.
Forse, ha il naso. Guarderò bene appena i miei occhi riusciranno a posarsi sulla sua navicella spaziale ancorata a terra da decine di fili e tubi e radar.
“Onestamente non sappiamo cosa augurarci” si lascia scappare un camice.
Nel frattempo io non ho ancora capito che Lei, dentro l’astronave pulsante di luci e rumori, è LEI.
La mia bambina ballerina.
La guardo a distanza. Protetta dall’armatura antibatterica che mi hanno fatto indossare, protetta dal vetro della navicella, protetta da tutti quegli involucri di lana e copertine varie che tentano di “ricostruire l’utero materno”.
Non ho ancora capito, che lei è LEI, e io sono IO. Sua madre. Quella che alle 23 del giorno prima aveva qualche linea di febbre, ha preso la tachipirina e si è messa a letto, perchè c’erano dei doloretti. Quella che alle cinque di mattina si è svegliata sentendosi dilaniare. Quella che il 118 ha detto: “Signora non si muova veniamo noi”. Quella che alle 6:04 ha partorito. Penso che sia solo un sogno. Penso che non voglio affatto vivere questa cosa.
Penso che non so cosa significhi il 90% di quello che mi viene detto.
Loro parlano, trafficano, sentenziano.
Io sto dietro alla barriera di mascherine, fili, astronavi, coperte e scruto quella cosina.
E’ davvero LEI?
“Bisogna aspettare le prossime 48 ore per capire“
Quante sono precisamente 48 ore?
Una formichina, può combattere 48 ore di fila? La mia formichina, resisterà?
Prime 24 ore: situazione stazionaria. Prognosi riservatissima. Parenti e amici con le facce di gomma che farfugliano (anche per iscritto, si capisce che farfugliano) cose assurde, tipo “L’importante è che stai bene tu“.
Non conoscono il potere intrinseco delle formichine. Se solo sapessero, cosa è davvero importante per le mamme delle formichine.
L’importante è che il calo fisiologico non ti porti via. L’importante è sventare tutti i pericoli. Ma non si può sapere. Qui dentro non si può sapere nulla. Mai.
Seconde 24 ore: mi parlano di te, e mi informano che c’è un elenco di rischi. Lunghissimo. “Bisogna essere preparati ad ogni evenienza“, dicono. Tu sei lì formichina con il nasino all’insù e le mani infinitesime. Ho paura.
“Adesso è importante stimolare la produzione di latte“
Realizzo di avere ancora un corpo.
Lo realizzo appena l’infermiera arriva con uno strano coso e me lo porge.
Incredibile come io senta di non esistere senza la mia formichina nella mia pancia.
E’ come se, dopo la sua nascita, io fossi trasmigrata dentro il suo corpicino grinzoso da formichina, e esistessi solo lì.
Il mio corpo originario, un lurido traditore. Una culla difettosa, sono.
Mi tolgo la maglietta.
Piango.
Mi giro mentre l’infermiera e tuo padre si spiegano tra loro come attivare il tiralatte.
Voglio essere nell’astronave insieme a te.
Terze 24 ore: “Signora adesso la dimettiamo perchè lei sta bene e quindi può entrare in reparto agli orari di visita, come le altre”.
Realizzo solo adesso che ci sono un sacco di altre astronavi. Per la prima volta, in tre giorni, mi guardo un pò intorno. Ma non voglio vedere. Non sono sicura di volere vedere il dolore degli altri, i successi degli altri, le lacrime degli altri.
La paura degli altri, soprattutto, si appiccica addosso, diventa la mia. Non posso permettermelo. Qui dentro c’è una forma di paura collosa, che avvolge tutto e tutti. Si nutre dei non detti, delle incertezze, dei visi tirati dei genitori. E’ una paura per ciò che potrebbe essere. E’ la paura dell’impotenza.
“Vi prego vi prego vi prego vi prego“, mi sento dire, da fuori. “Solo un altro paio di giorni“.
“Sono le regole” “E poi staccare vi farà bene!” affermano con sicumera la psicologa e l’infermiera.
Inutile dire loro che tutto è cominciato proprio perchè ci siamo staccate, io e LEI, assai prima del tempo.
Non mi voglio staccare ancora. Non posso farlo.
La mia pancia vuota e i miei seni, ancora inesperti e molti insicuri del loro ruolo sono lì a ricordarmi che no, a 25 settimane non ci si dovrebbe staccare. Affatto.
“Vi chiamiamo noi…nel caso. Per oggi andate pure“. Nel caso. Questa frase sospesa. Come questo tempo. Come questa vita che ha fatto una curva a gomito e adesso viaggia sullo sterrato per una destinazione ignota.
Sospesa la formichina nella sua navicella rumorosa.
Sospesa io, dentro questo corpo troppo vasto e troppo vuoto, per essere abitato.
Sospesi, per meglio dire.
Io, formichina e Alessandro.
Alessandro è il più sospeso di tutti, quello col ruolo infame: un pò ambasciatore, un pò badante, un pò infermiere. Un pò padre di formichina, e un pò padre mio. Io sono rimpicciolita improvvisamente in questi cinque giorni. Da sola non so fare nulla. A parte piangere. E, forse, pregare tutti gli dei e le dee, novella Persefone che non sono altro.
Formichina ha iniziato il suo sesto giorno di vita in astronave in modo molto accidentato. La sua astronave urla. Lei ha un colore strano. Mi sembra più grande, in realtà, mi dicono sono i liquidi che deve prendere per assumere le medicine. Quando arrivo è inerme, quasi arresa, dentro il suo uovo di lana e di plexiglass. Ho paura che abbia paura.
“Sono qui, le dico, c’è mamma“.
Hai una mamma impietrita. Annientata dal tuo corpo esausto.
“C’è stata una brutta crisi, stamattina prima dell’alba“.
Sono le nove.
Chiedo bruscamente perchè non ci hanno telefonato.
Ci rispondono che tanto sapevano che saremmo arrivati dopo poco.
Mi scappa un calcio a una sedia. Mi scuso, per formalità. Non ho un briciolo di vergogna, né di pudore. Formichina sta malissimo.
Mi sento in trappola.
Rimaniamo soli, circondati dal viavai del reparto.
Provano a intervenire.
Ci chiedono di uscire.
Chiediamo di restare.
Insistono che dobbiamo uscire.
Usciamo, increduli.
La psicologa arriva da dietro. Sento i suoi occhi dentro la mia schiena.
Mi giro.
Lei tace.
Io taccio.
Dopo un tempo che mi pare quattro secoli, abbozza un sorriso tenue e prende un foglietto dalla tasca del camice.
“Se volete parlarmi, vi dico dove trovarmi”.
Poi
se
ne
va.
Ho il rumore dell’astronave nelle orecchie. Alessandro sta appoggiato al vetro. Il più possibile vicino a formichina.
“Flo, a papà. Resisti“, mormora sottovoce ma non troppo.
La nostra Flora.
La nostra ballerina con le gambe lunghe.
Il dolore di Alessandro mi trafigge.
E adesso?
Intravedo movimenti convulsi intorno alla postazione di Flo.
Intravedo le ombre degli altri genitori, lontanissimi da noi, increduli. Impauriti.
“Stava benino fino a ieri” mi dice una OS. “Mi dispiace signò, siete una così bella famiglia“.
Siamo una famiglia.
Io Alessandro e la Flo.
Siamo lo stesso una famiglia.
Saremo comunque una famiglia.
Flo, smetti di soffrire.
Il tuo dottore scuote la testa.
E in quel momento io mi sento invadere da una forza che mi strappa dalla sedia.
Prendo per un braccio Ale. Lo strattono, corri, gli dico. Busso, come una forsennata, alla porta.
“Voglio abbracciarla“, dico.
“Apritemi!”, urlo. E’ un urlo corale. Esce dalla mia bocca, ma non è solo mio. E’ l’urlo di tutte le madri quasi-orfane.
L’infermiera, evidentemente scocciatissima, apre e mi fa scudo col suo corpicione.
Arrivo dalla Flo, ha il volto impegnatissimo nella sua battaglia.
Non vuole andare.
O forse mi aspetta.
Ale si nasconde gli occhi nell’incavo del gomito.
“Apritela“. Ingiungo.
Sono tutti fermi, alcuni sconsigliano, altri temporeggiano.
Arriva lei, la dott.ssa Laura.
La sua voce è posata. Mi guarda negli occhi. Sfiora il gomito di Ale.
“Volete prendere in braccio la Flo?” chiede.
“Vi ho portato questa“. Tira fuori una coperta di lana ricamata. Me la porge. L’infermiera col corpicione, rassegnata, mi offre una sedia. L’infermiere con le sopracciglia a gabbiano chiede ad Ale se vuole aiutarlo a tirarla fuori.
Tremo.
La mia Flo.
Ancora troppo piccina per vincere tutte le battaglie di questo mondo.
Abbastanza grande da tornare tra le braccia di mamma e papà.
E da lì, ripartire, amata.