I minuti che precedono e quelli che seguono la diagnosi di morte in utero sono difficili, lentissimi, dolorosi. Per chi è chiamato a dare la cattiva notizia, e per chi la riceve, impotente. Quando muore un bambino il dolore generale può essere tale da far passare in secondo piano proprio il bambino, che rischia di essere considerato non colui che si piange ma causa stessa del dolore. E come tale, viene allora messo da parte, in fretta, con l’idea che questa separazione tra il bambino e i genitori possa lenire la ferita. Sappiamo bene che non è così che funziona. Proviamo a vedere perchè.
Ai grandi bisogna sempre spiegare tutto, soprattutto del lutto perinatale
se mi vedete qui a volare
è che so staccarmi da terra
e alzarmi in volo
come voialtri stare su un piede solo
difficile non è partire contro il vento
ma casomai senza un saluto.
Ivano Fossati – Lindbergh
Sono Tommaso e sono un bambino.
Non abbiate paura di me.
Non c’è nulla da avere paura. Non mordo! Dico a te, ostetrica che non trovi il battito e hai la mano che trema e gli occhi bassi e il cuore un po’ pesante per il dolore che ti è arrivato dentro, a te per prima, e che tra poco, questione di istanti, sommergerà i miei genitori. Dico anche a te, ginecologo col camice stiratissimo, lo sguardo franco, e la bocca appena piegata in una smorfia di dolente fastidio per questa brutta storia che ti sta capitando, che ci sta capitando, a tutti noi che siamo nella stanza, e che te non vorresti aver dovuto gestire, perché il dolore arriva e spiegazza, strapazza, disordina, tutti. Dico a te, mamma. Che un po’ hai già sospettato qualcosa, ma solo pochino, perché la mente delle mamme non è fatta per pensieri come questo: non è fatta per certezze come queste. E dico a te papà, che ancora non lo sai, ma stai per trasformarti in solida colonna: tutti te lo chiederanno, tu sentirai di doverlo fare, di dover sminuzzare il dolore con le tue mani, tentando di rimpicciolirlo, di dominarlo, di vincerlo. Penserai che questa è l’unica cosa da fare quando la terra frana e si apre il baratro sotto i piedi di mamma e sotto i tuoi. Non so come mai, ma ti sembrerà, dal baratro, di poter essere forte per tutti, per mamma, per i nonni, e per gli amici e i loro occhi stralunati e gonfi di lacrime, di poter guarire da questa cosa più grande di me, di voi, di poter fare in fretta e andare avanti. Andrà tutto bene, babbo, anche senza che tu diventi colonna. Resta come sei. Alla mamma piace tanto.
Sono Tommaso, sono un bambino.
Il bambino di quei due genitori attoniti seduti nell’angolo con la faccia tirata e inespressiva, che tra poco sapranno che io sono partito per l’altrove. Sono partito, ma non ho mica smesso di amarli. Sono stato il loro bambino e sono il loro bambino, anche adesso, che devo ancora nascere. Solo che in parecchi preferirebbero che quelli come me partissero portandosi tutto appresso. Dileguandosi, misteriosamente.
Invece no.
A quelli come me, gli tocca di nascere, dopo essere morti. Una roba che fa paura a tutti. Una roba che nessuno vuole sentire, cui nessuno vorrebbe assistere, o che nessuno vorrebbe mai ricordare.
Tranne i miei genitori, ovviamente. Che però da dentro al baratro dove nel frattempo sono caduti, appena finita la frase “Non c’è più battito” che ha detto la dottoressa con gli orecchini ricamati e la bocca a smorfia, riescono solo a pensare che sono morto. Le altre cose, proprio, non gli vengono in mente. A tratti, sono anche arrabbiati con me, per questa bella trovata. Per lunghissimi minuti, non riescono a pensare a nulla, sono come sommersi dal dolore. Lontani. Disperati. Incapaci di ricordarsi che sono i miei genitori, quelli che fino a ieri sera mi cantavano le canzoncine dall’ombelico ridendo come pazzi (ho scelto dei genitori fighissimi, io, il babbo è anche parecchio intonato, ma sbaglia tutte le parole: la mamma lo prendeva in giro sempre, per questo motivo e si interrompevano seimila volte a canzone, e allora io PAM!, li calciavo).
Sono sempre io, sono Tommaso. Mi dispiace tanto. Lo so, dispiace anche a voi. Ma sono sempre io.
Sto per nascere, in questo posto dove c’è troppa paura di me. La sento forte la paura, arriva anche alla mia mamma e al mio papà. Accanto alla paura c’è l’imbarazzo, di proporre qualcosa di sensato ai miei genitori e l’imbarazzo di chiedere ai miei genitori o ai miei nonni se hanno piacere di incontrarmi. Stai a vedere che mi tocca fare la fine di Lapo, che appena nato lo hanno portato via e rinvoltolato dentro un telo verde tenuto insieme dal nastro adesivo. A me sta storia del nastro adesivo non va giù. Io non voglio essere impacchettato.
Voglio una cullina, un lenzuolino, una roba normale, insomma, da bambino.
Da bambino che saluta i suoi genitori.
Non doveva andare così, dite tutti. Però è così che è andata. Quando nascerò, sarò morbido e caldo, e bello. Perché io sono bello, non faccio paura. Lo dicevano tutti a tutte le ecografie, che sono bello. Che poi, anche se per voi fossi “brutto”, figurati ai miei genitori che gli importa, loro hanno gli occhi da genitore, le cose che vedete voi non le vedono, e anche se le vedono non gli danno tutta questa importanza, soprattutto se qualcuno di voi, invece di prendere il nastro adesivo e il lenzuolo verde, mi sistema mi prepara e mi accompagna da loro.
Quindi, per favore, voi col camice stirato, voi con gli orecchini ricamati, voi con il cuore pesante, quando nascerò, non scappate via.
Trattatemi come ogni bambino andrebbe trattato in ogni sala parto. Insegnate ai miei genitori che possono uscire dal baratro per qualche minuto per essere i miei genitori in modo normale, e imparare a riconoscermi per quello che sono, sono stato e sarò. Lasciate che i miei genitori possano incontrarmi e iniziare a salutarmi.
Non abbiate paura di me.
Sono un bambino. Mi chiamo Tommaso.