La conoscenza che protegge – BabyLossAwareness e diritti umani

by Claudia Ravaldi

D’istinto, vorremmo semplicemente che le cose brutte smettessero di accadere.

D’istinto, vorremmo almeno che non accadessero a noi, o ai nostri cari.

Perchè il contatto con il dolore ci spaventa.

Ci spaventa così tanto, che d’istinto vorremmo poterci sottrarre al difficile gioco del lutto, dell’attesa che si elabori, dell’incertezza profonda che ci coglie dopo un lutto e durante un’attesa dopo un lutto. 

Mi sono chiesta molte volte, dopo avere sentito, d’istinto, tutte queste cose, perchè tendiamo a complicare tutto: nascita, vita, morte, emozioni, pensieri, azioni.

 

Mi sono chiesta se davvero, agire d’istinto, che spesso vuol dire fuggendo o rifuggendo le situazioni temibili e temute,  fingendo di non sapere che le cose terribili accadono, o adottando azioni puramente scaramantiche per contenere l’angoscia, sia la migliore soluzione possibile per noi, per il nostro benessere, per quello dei nostri figli.

La risposta ovviamente è no.

Fuggire dalla conoscenza di un problema non tiene lontano il problema.

Fuggire dalla soluzione di un problema non lo risolve.

Fuggire da chi porta un problema, poi, non migliora la nostra condizione, e neanche la sua.

E allora perchè fuggiamo? (con il corpo, con la testa, con le nostre parole?)

Fuggiamo perchè non sappiamo come fare.

Non sappiamo come codificare le sensazioni associate a situazioni difficili come il lutto perinatale e la morte di un neonato ad esempio.

Non sappiamo come decifrare e nominare le emozioni che proviamo, tutte insieme, all’unisono, quando abbiamo a che fare con questo argomento.

Non sappiamo come mettere in un ordine coerente sensazioni, emozioni, pensieri  per poi tradurre il tutto in un comportamento appropriato.

Appropriato per chi? Potreste chiedermi.

Appropriato per tutti. No, non è affatto impossibile. Ce lo insegnano decine e decine di studiosi della comunicazione e della relazione d’aiuto.

Appropriato per chi, provando tutto ciò come spettatore, necessita di strumenti adeguati per reagire al meglio delle sue possibilità, e per chi, provando tutto ciò come vittima, ha un bisogno spasmodico di ricevere dei feedback appropriati, sani e sanificanti, visto il suo attuale stato psicofisico post-traumatico.

Per questo motivo, da dieci anni, lavoro su tre diversi livelli al tema lutto perinatale:

il livello dell’assistenza delle persone direttamente colpite;

il livello dell’assistenza e dell’educazione delle persone che assistono le persone colpite;

il livello della sensibilizzazione sociale e dell’educazione della popolazione generale, nella quale tutti noi viviamo e i cui feedback nelle nostre vite hanno un peso tutt’altro che trascurabile, in termini di resilienza.

Quest’anno in particolare abbiamo lavorato sul concetto di conoscenza (medica, psicologica, psicosociale, comunitaria) applicandolo ai tre livelli di cui sopra.

Ci siamo accorti, non senza disappunto, che le tre categorie sono separate, a se stanti, lontane tra di loro.

Il principio dei vasi non-comunicanti, l’ho definito.

Ciascuno a suo modo, ciascuno separato, anche di fronte allo stesso evento, anche di fronte allo stesso bambino nato morto.

Le informazioni corrette sul lutto perinatale non circolano, se non in sistemi chiusi, che prescindono gli uni dagli altri.

Ad esempio, gli “audit” che nel resto del mondo si fanno insieme alle famiglie, sono ancora molto spesso a porte chiuse, e solo dopo, si riferisce alle famiglie quanto si è appreso. Si tende a tenere separati operatori e genitori. Si tende a tenere separati gli operatori tra di loro, per categorie professionali.

Pochissimi reparti indicono una riunione per restituire la cartella e gli esami alla famiglia: molti rimandano al curante, molti spediscono tutto a casa.

Pochi reparti si interessano di ciò che accade alle coppie dopo la dimissione, in molti si limitano ad augurare loro di restare presto nuovamente gravidi.

I genitori, spesso, sono vittime di equivoci sul lutto perinatale, di vecchi concetti di psicologia e di medicina ormai largamente superati che tuttavia resistono tenacemente in certe realtà ospedaliere; gli operatori stessi, ostetriche, medici, psicologi, a loro volta separati in categorie separate e molto lontani da un’autentica visione d’equipe, sono vittime di questa resistenza al cambiamento, nella misura in cui, in certi ospedali, chi desidera migliorare le sue competenze sul lutto perinatale è visto ancora oggi come un menagramo, un fanatico, una persona stramba o un perditempo (è successo, ho visto i richiami scritti, di ciascuna di queste situazioni).

Ancora oggi, per dirne una, l’idea che a termine un bambino si muova meno perchè ha poco spazio è in auge in molti consultori e viene insegnata alle madri. Anche se si sa benissimo che non è così.

Ancora oggi, nonostante una grossa mole di lavoro svolto, si dubita che ciò che la comunità internazionale ritiene utile ai fini del lutto sia realmente utile. Si preferisce pensare che siano “fantasie” “suggestioni”, “visioni soggettive”.

Tutto ciò non avviene per mancanza di tempo/mezzi/risorse intellettuali/volontà (come all’inizio pensavo, incredula).

Oggi, 2016, nemmeno la corretta formazione, rappresenta un reale problema. Ho svolto 180 tra seminari e corsi di formazione in 10 anni e il feedback che ho ricevuto è stata una migliore comprensione del problema e delle sue sfaccettature che ha permesso di iniziare a cambiare l’assistenza in quasi tutti i luoghi in cui ho insegnato.

La corretta formazione esiste. La bibliografia esiste. Le tesi su campioni italiani  esistono (ne abbiamo seguite 17 con il nostro comitato scientifico).

La formazione di alto livello non rappresenta più un problema, se uno vuole farla.

E allora perchè noi genitori, operatori, società tutta, preferiamo molto spesso restare nell’ignoranza e nell’oblio?

Tutto ciò avviene perchè se io non conosco in profondità ciò che devo affrontare, se io non dispongo di strumenti culturali, sociali e personali per comprendere il lutto perinatale e le sue dinamiche, sarò più facilmente preda della paura, della negazione, della fuga, della scaramanzia.

Più facilmente sceglierò in modo automatico, strategie di compenso altrettanto automatiche, per risolvere il problema il più velocemente possibile. Più alta sarà la mia difficoltà e la mia sofferenza e il mio disagio rispetto al lutto, più facilmente cadrò nell’inganno della soluzione rapida, del consiglio paternalistico, della pacca sulla spalla, del “se continui a stare male non smetterai più di stare male, fatti forza!”.

Le conseguenze di questa ignoranza le paghiamo tutti, generazione dopo generazione.

È necessario smettere di scappare, prendere fiato, fare tre respiri profondi e prendersi cura di se stessi. 

È necessario stare a fianco di questo tema, e imparare a conoscerlo, con i mezzi (numerosi) che abbiamo oggi a disposizione.

È necessario distinguere ciò che è una mia (legittima) difesa psichica per proteggermi dalla paura e dalle altre emozioni negative da ciò che i genitori e gli operatori nel mondo cercano di insegnarci da anni. E agire di conseguenza.

La mia paura (la mia indifferenza, o la mia rigidità che sia) non può diventare il parametro per le mie azioni.

Soprattutto quando le mie scelte hanno importanti ripercussioni su di me e sugli altri.

Per queste riflessioni, quest’anno il BabyLoss Awareness Day in Italia sarà dedicato alla conoscenza.

Alla conoscenza che, in quanto tale, ci protegge.

Protegge i genitori dalla sofferenza generata dall’ignoranza, dall’incuria e dall’abbandono da parte degli altri, permettendo loro di compiere scelte consapevoli e informate.

Protegge gli operatori dalla sensazione di confusione, impotenza e tensione che si associa spesso a una diagnosi infausta in gravidanza o dopo la nascita: un operatore  dotato di strumenti appropriati proverà empatia per la coppia, e tristezza, ma sarà consapevole anche di tutte le sensazioni, le emozioni e i pensieri che sperimenta, così da poterli individuare e tradurre in comportamenti appropriati.

Protegge la società, che di fronte al lutto perinatale reagisce molto spesso barricandosi dietro al senso di ingiustizia, di inspiegabilità di impotenza. Da cui nasce l’esigenza di “riparare”, augurando alle coppie di avere altri figli, di ritrovare al più presto la serenità, di tornare felici come meritano. Oppure, e questo avviene quotidianamente nei social ma anche in molti luoghi di cura, dimenticandosi chi è la vittima diretta del lutto che necessita maggiormente di aiuto e supporto qualificati, perchè la nostra sofferenza è tale da oscurare quella della persona direttamente coinvolta. Che in questo modo, condanniamo ad essere vittima due volte. 

Una società in difficoltà con la nascita e la morte, è in massima difficoltà quando nascita e morte si intrecciano.

È una società che ha bisogno di uno spazio per poter rendere pensabile, e quindi dicibile, ciò che oggi pensabile non è.

Per questo motivo, il 15 Ottobre 2016 saremo nelle piazze, negli ospedali e ovunque potremo, per promuovere la conoscenza che protegge.

Tutti noi.

“Perché la gioia come il dolore si deve conservare si deve trasformare” N. Fabi

 

 

 

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