Cosa accade quando una donna perde un bambino in gravidanza o dopo la nascita? Cosa accade, al suo corpo? Che ne è del suo puerperio, del baby blues, del latte, delle lochiazioni, del suo sonno, del suo appetito, dei suoi ormoni, del suo adattamento a una realtà che è completamente diversa da ciò che sarebbe dovuta essere, ma rimane incastonata negli inesorabili ritmi del corpo dopo il parto?
Ho appena perso il mio bambino a 25 settimane… stamattina mi sembrava di avere i seni gonfi e duri, allora mi sono alzata la maglia, ed ecco lì sgorgare una bella goccia di latte… ho pianto tutte le mie lacrime
C’è un furibondo pudore, intorno al corpo della madre dopo il lutto perinatale. Questo pudore non ci aiuta. Non aiuta il nostro recupero psicofisico, non aiuta il recupero di una salute già evidentemente compromessa, visto ciò che è appena accaduto. Dobbiamo abbandonare il furibondo pudore collettivo, ed avere il coraggio di guardare con rispetto e amore, il corpo delle madri orfane, il suo cercare di fare ciò che un corpo di madre mammifera fa, quando ha partorito un bambino. Che sia vivo, o che sia morto, al corpo interessa poco. Perchè è programmato e preparato e pronto da mesi per svolgere le sue funzioni di accudimento. E lui, imperterrito, le svolge. Nonostante quei segnali discordanti, che arrivano dalle braccia troppo vuote, dalle menti troppo ottenebrate, dagli uteri impietriti. Ma lui procede. Perchè il corpo sa, sa i tempi, e i modi, e i ritmi, anche se noi abbiamo dimenticato. Il corpo sa, e vorrebbe stracciare quel velo di pudore che lo circonda e ricevere uno sguardo, che contenga l’angoscia di inutilità, il sentimento di fallimento, la vergogna per essere sopravvissuto a tutto ciò. Ci vorrebbe uno sguardo, ci vorrebbe uno spazio, ci vorrebbe che i nostri interlocutori smettessero di avere pena e paura insieme.
I corpi delle madri non dovrebbero fare paura. Nemmeno quando sono gusci vuoti. Dovrebbero, piuttosto, fare tenerezza, suscitare com-passione, e ammirazione, persino. Per gli tsunami che riescono a superare, quasi indenni. Viene meglio, se ricevono un autentico sostegno.
È davvero uno degli aspetti piú strazianti e difficili da condividere. Ti cambia per sempre.
Ho ricevuto decine di testimonianze da centinaia di madri, sulle storie dei loro corpi, dopo la perdita.
Ecco la prima storia che ho ascoltato, molti anni fa.
In un corridoio, tra lunghi scaffali, in una libreria del centro città, un pomeriggio piovoso di Marzo.
Una donna cerca avidamente con gli occhi e con le mani, un libro che non trova: deve spiegare a suo figlio, con parole che crede di aver perso, un evento che non riesce a raccontare neppure a se stessa. Cerca le parole, cerca una culla di parole, per se stessa, per i suoi bambini, per riposarsi dall’incubo in cui è precipitata da pochi giorni.
Mentre cerca, la porta d’ingresso, alle sue spalle, scricchiola e si apre.
Entra un piccolo gruppo di persone, si sentono i passi, si sentono le voci. Sono nascosti, dietro scaffali di libri. Sono aldifuori della bolla di dolore, pensa la donna, continuando a cercare. Perchè senza le giuste parole, si sa, il cuore si rompe, in pezzetti sempre più piccoli.
Ci sono tantissimi libri di istruzioni per tutte le cose della vita, nello scaffale psicologia, pedagogia e gravidanza della libreria del centro città.
Non ci sono libri su come spiegare la morte di un fratello atteso a un bambino di due anni e mezzo. Non ci sono libri scientifici, non ci sono libri divulgativi, non ci sono fiabe, non ci sono romanzi, non ci sono favole, non ci sono libri cartonati, non ci sono fumetti.
I bambini in Italia non perdono fratelli. I nascituri in Italia non muoiono mai.
La donna ha un taglio di doloroso disprezzo sulla fronte. Si sente abbandonata, anche dai libri, a un destino che crede di non poter maneggiare, senza le istruzioni di chi questo destino l’ha già vissuto e oggi può vederlo da una giusta distanza.
Mentre riflette quasi imprecando su questa solitudine violenta, da dietro le spalle si alza un gridolino.
Riconoscerebbe quel gridolino in mezzo ai cori di uno stadio.
C’è un neonato nei paraggi. Un neonato vivo, che, tra poco, reclamerà il suo latte.
Il neonato continua a chiamare la madre, che è salita al piano di sopra con la sorella maggiore.
Quanto tempo occorre a scendere un piano di scale ad una puerpera chiamata dal figlio?
Lo stesso, esatto tempo, che occorre a una puerpera in lutto per avere una montata lattea, per sentire la maglia bagnarsi e per scappare dalla libreria, senza voltarsi.
Lasciandosi dietro le spalle, una scia di lacrime di latte.