La grave prematurità: le riflessioni dei genitori

by Claudia Ravaldi

Una mamma TIN ci dona la sua ricca testimonianza, di madre, di donna e di professionista che ha vissuto l’esperienza della morte del suo bambino prematuro, descrivendo con tanta cura e attenzione cosa è mancato e cosa resta.

Lecco, 10 novembre 2017

Considerazioni personali e ricordi della mia esperienza in patologia neonatale  dopo la nascita del piccolo Joel 14/01/2012 e dopo la sua morte avvenuta il 7/02/2012

Durante il corso di perfezionamento di psicologia clinica perinatale abbiamo avuto una giornata dedicata al bambino in TIN. Guardando i video con le immagini della patologia neonatale e i suoi piccoli degenti, ascoltando quei suoni famigliari, si sono risvegliati nella mia memoria i ricordi delle giornate trascorse in TIN dopo la nascita del mio piccolo Joel, nato a 23+3 e a stento ho trattenuto le lacrime: il cuore batteva forte forte, le mani tremavano e un po’ faticavo a respirare. La mia mente era piena di pensieri che andavano e venivano, considerazioni sulla mia esperienza personale: quel giorno sono arrivata a capire che nessuno ci ha guidato nella relazione con il nostro bambino, la “relazione” con un piccolo prematuro non è infatti scontata,  la Care totalmente assente.

Ripensando ai miei 24 giorni in tin con Joel ma anche a S. nato nel 2002 a 33 + 3 (due settimane in tin) posso dire di avere avuto un supporto strettamente medico: la mia visuale è cambiata in questi anni, mi sono sempre ritenuta fortunata per il tipo di assistenza ricevuta, impeccabile dal punto di vista della comunicazione medica dei vari passaggi e dello stato di salute dei miei bambini, ma il tutto si ferma qui.

Nessuna parola mi ha guidato ad approcciarmi a loro e a iniziare una relazione con loro, nessuno mi ha mai detto puoi parlargli anche se dietro un vetro, puoi cantargli una canzone se vuoi, puoi sfiorarlo delicatamente.

Tutto scontato? Non direi.

Io personalmente ho fatto queste cose ma in maniera fugace, con paura, sentendomi “sbagliata”, non sapevo se era giusto, se era possibile. Forse ero trattenuta, pensavo anche se non razionalmente che stavo con lui, se lo toccavo mi sarei affezionata troppo, come se una carezza in più, una parola in più, potessero far crescere le mie aspettative di speranza di poterlo tenere in braccio e di poterlo portare a casa.

Solo ora comprendo che questi gesti da me effettuati raramente mi avrebbero invece regalato momenti intensi, ricordi unici che porterei nella mia memoria.

Mi manca non averlo toccato maggiormente, non aver trascorso con lui più tempo, mi sentivo inutile.

La mia presenza in Tin mi sembrava uno spreco, fuori la vita familiare mi aspettava, a casa c’erano S., mio figlio, e  il mio compagno.

Dentro un tempo immobile, l’ansia, la paura, il dispiacere di vederlo in quella culletta pieno di tubicini, nasino deformato, orecchie schiacciate, la manina dalle lunghe dita nascosta da una grande fasciatura, tutti quei sensori , rumori e suoni che  impari a conoscere.

Te li spiegano velocemente, per loro è tutto scontato.

Mi sarebbe piaciuto essere accolta come ho visto fare nel video del corso. Ogni giorno con un “buongiorno mamma” oppure “il tuo bambino ha fatto il bravo questa notte” o  ancora “questa notte è stata faticosa” e via dicendo: invece dopo il lungo lavaggio di mani entravo in  reparto quasi in punta di piedi, quasi trasparente mi avvicinavo alla sua culletta e cercavo segnali del suo stato, mi guardavo in giro alla ricerca di uno scambio di sguardi rassicuranti.

Cercavo negli occhi degli operatori una risposta ai miei  interrogativi, una parola che mi aiutasse a comprendere le mie emozioni o che mi guidasse a lui.

Raramente ho trovato questo, ognuno preso nel suo lavoro, nel suo compito prettamente assistenziale verso questi piccoli ospiti.

Non ho nulla da eccepire su come invece ci hanno dato tutte le comunicazioni mediche più importanti, dai segnali positivi a quelli in cui era urgente intervenire, fino all’ultima  in cui la situazione difficile si respirava per la presenza del primario e perché avvenuta proprio nel suo ufficio. Segnale che mi diceva che l’imprevisto era grave,  che la situazione era irreversibile. Con parole semplici ci hanno spiegato la situazione  “aperto il pancino di Joel per effettuare una resezione di di parte dell’intestino, ci siamo resi conto che era totalmente in peritonite, che ogni piccolo movimento di esso portava a far lo sanguinare“.

Deduzione ovvia nella mia mente, senza intestino non si vive e adesso? Niente vi diamo il tempo per organizzarvi, andate a casa mangiate un boccone, così noi lo sistemiamo e poi tornate da lui per passare gli ultimi momenti.

Come un automa ho eseguito ciò che ci hanno detto, a casa a tavola con S e C mi vedo seduta ma non ho assolutamente memoria di ciò che abbiamo mangiato, se ci siamo parlati o cosa ci siamo detti, il vuoto.

Invece è chiara la mia immagine in Tin con lui appoggiato sul cuscino dell’allattamento, adagiato sulle mie gambe, io seduta su di una poltrona, che logo guardo, sfioro la sua mano, non la tocco, ho paura di toccarlo, sta per morire, non posso toccarlo, lo guardo e basta.

Mi rendo conto che il mio seno sta per scoppiare è bollente, le coppette assorbenti sono piene del suo latte, devo andare nell’altra stanza per tirare il latte, devo andare perché lì non ci sto più dentro, non è possibile, è un brutto sogno, io protagonista mi vedo guardata dal mio compagno e dagli operatori di turno, con discrezione erano presenti pronti ad intervenire ad un nostro cenno, non so di cosa dovevamo aver bisogno, ci potevano dire, guidare alla morte, difficile situazione per tutti.

E dopo la morte? La nebbia nel mio cervello, ricordo solo un’infermiera che mi domandava se avevo un vestitino per lui? Come potevo avere un vestitino così piccolo? La sua risposta al mio no è stata “allora ci penso io”gli metterò qualcosa di nostro. Al momento mi sono detta “BENE, che brava ci pensa lei”. Ora mi dico che poteva forse chiedermi o farmi capire che prepararlo insieme, farmi scegliere  un vestitino o un cappellino, poteva aiutarmi in quella relazione mancata, poteva aiutarmi a concretizzare e a toccare con mano la morte, a scongelare una me che solo a casa si è concessa di piangere il suo bambino. 

Non ho rimpianti perché per come ero IO cinque anni fa, per come avevo sempre vissuto la morte fino ad a quel momento e non l’avevo mai incontrata così direttamente, mi hanno sempre tenuta lontana anche dalla morte dei miei nonni. E’ meglio non guardarli, così te li  ricordi da vivi e ancora “Se non vuoi non  venire al funerale” mi dicevano. Non ero preparata, pronta? ma si è mai pronti alla morte? Per come ho imparato a stare nel dolore, per come sono ora, che conosco un po’ di più la morte, mi sarebbe piaciuto sentire altre parole,  essere guidata alla scelta di un vestitino per lui,  mi era anche venuto in mente di andare a comprarlo il giorno dopo, ma in quel momento mi sembrava un pensiero assurdo,ma  non era assurdo avrei fatto qualcosa di bello di normale per mio figlio, invece mi è toccato andare in comune a dichiararne il decesso e poi alle pompe funebri per scegliere la sua bara e la sua piccola urna.

Sul post morte il nulla, il n. di telefono della psicologa dell’ospedale che collabora con la Tin, annotato in un angolo di un foglietto in caso ne avessi avuto bisogno.

T. mamma di Joel polvere di stelle

 

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