Undici anni di lavoro sul tema della morte perinatale e del lutto ci hanno portato a contatto con una situazione di grave criticità nel nostro paese.
Siamo tra i pochi a non avere delle linee guida specifiche e dettagliate su questa complessa tematica. Entro il 2020 l’OMS ci ha chiesto di ridurre del 20% le morti in utero, prevenendo tutte quelle evitabili, e Lancet nel 2016 ha espressamente segnalato come sia imprescindibile la formazione e la cura degli operatori se vogliamo offrire un sostegno efficace e valido ai genitori in lutto.
Purtroppo, nonostante i numeri (una gravidanza su sei) sarebbero tali da permettere in uno Stato più organizzato del nostro, adeguati percorsi formativi e di sostegno, il Ministero della Salute e quello dell’Istruzione, responsabile dei percorsi formativi universitari, non hanno ancora focalizzato il problema con l’attenzione che meriterebbe.
Ed è in questa zona d’ombra istituzionale che nasce e si sviluppa ciò che l’OMS e diversi paesi definiscono “Abuso e mancanza di rispetto negli ospedali” o “Violenza Ostetrica”.
Si ha Violenza Ostetrica (intesa come Violenza che avviene nel percorso gravidanza parto puerperio, descrive il luogo, non l’operatore!) dopo un lutto perinatale ogni volta che avviene una di queste cose:
“Voglio vedere il mio bambino”
“Non si può”
“Perché?”
“Perché è la prassi. E poi è meglio che non lo vedi”
“Voglio fare l’autopsia”
“Tanto non si trova niente. Meglio non farla.”
“Devo fare qualche esame specifico?”
“No signora, fino a tre aborti è normale, è la natura, voi impegnatevi”
“Non sento muovere bene mio figlio, c’è qualcosa che non va”
“A termine si muovono meno, e lei è solo una mamma ansiosa”
“Non è possibile che non ci sia più…”
“Signora guardi, non è rimasto nulla, sarà caduto nel water”
“Posso avere la peridurale?”
“Ma che non le hanno detto che si partorisce con dolore?”
“Vorrei fare il parto naturale”
“Per cosa? Per soffrire inutilmente? Venga, la addormentiamo così non ci pensa più”
“E’ previsto un servizio psicologico in questi casi?”
“Solo per i lutti perinatali. Il suo era solo un piccolo aborto”
“Che esami si devono fare in questi casi?”
“Nessuno, è morte in culla ma in utero, la prossima volta non ricapita, tranquilli!”
“Non state tanto a fasciarvi la testa su questa disgrazia, che sennò non ve ne vengono più (di figli)”
“Vorrei fare la sepoltura”
“E perché mai? Meglio non avere una croce su cui piangere”
“Posso seppellire il mio bambino?”
“Bambino? Ma quale bambino? Qui ci sono solo un mucchio di cellule”
“Vorrei fare il funerale”
“Signora scelga, o il funerale o l’autopsia”
“Posso farle una foto?”
“Una footooooo? Contenta lei”
“Ho visto che ci sono dei gruppi di autoaiuto per il lutto perinatale”
“Signora, dia retta a me, lasci perdere tutte queste cose che alimentano il dolore, e ne faccia un altro al più presto, che vedrà, passa tutto”
“Sono in lutto”
“Ci sono cose più serie che un incidente di percorso, mi creda”
“Mi raccomando, adesso lei deve essere forte per sua moglie”
“Ce lo dica lei cosa è meglio per sua moglie”
“Guardi, è meglio se smette di riprovarci, si vede che non è cosa”
“Tenga le pasticche per mandare via il latte”
“Vorrei donarne ancora un po’ agli altri prematuri”
“Assolutamente no! Che poi le viene la depressione”
Queste frasi sono state pronunciate da operatori sanitari, sia direttamente alle madri durante la degenza in ospedale, sia nei miei corsi di formazione durante le discussioni di casi e le esercitazioni di gruppo.
Molte di queste frasi nascono da un grave vuoto formativo, che stiamo cercando di contrastare con congressi, articoli, campagne informative, fin da quando, nel 2006, mi è stata detta la prima frase dell’elenco.
Tutte le linee guida in materia di assistenza al lutto perinatale, a tutte le età gestazionali, contengono le risposte corrette a queste affermazioni irrispettose, che per molti genitori sono divenute veri e propri abusi: si configura un abuso ogni qual volta un interlocutore “esperto” interrogato in merito alle sue competenze sul campo risponde non in base a ciò che dovrebbe sapere, o ciò che potrebbe servire al suo assistito, ma in base alla sua opinione personale, o per sentito dire.
La principale responsabilità di questi abusi non è dei singoli operatori, totalmente abbandonati in questo specifico settore fin dagli studi universitari, ma di chi organizza i percorsi di formazione sia pre che post laurea. Una grossa parte di responsabilità è inoltre delle aziende ospedaliere, che lasciano gli operatori in trincea senza fornire loro nessun aggiornamento e nessun sostegno che consenta loro di svolgere un lavoro rispettoso e competente anche con le coppie colpite da lutto perinatale. Il fatto che tre o quattro aziende facciano formazione è lodevole, per quelle aziende specifiche, ma non risolve il problema di tutte le altre centinaia di aziende ospedaliere italiane, che assistono le donne e anche le donne in lutto.
Questa catena di incuria reiterata lascia sul campo molte vittime: le donne, i loro compagni, i loro bambini nati morti, o vissuti per poco tempo, gli operatori coinvolti nella cura senza strumenti idonei per la cura.
Le prime vittime di violenza ostetrica accanto alle donne, sono gli operatori sanitari.
Perché nessuna donna debba implorare di poter vedere il suo bambino morto;
Perché nessuna donna debba ricevere informazioni sbagliate sugli approfondimenti diagnostici in caso di aborto, parto pretermine e morte perinatale;
Perché nessuna donna debba sentirsi ridicolmente romantica quando chiede di poter seppellire suo figlio, di nove settimane, dal momento che questa opzione è prevista dalla legge italiana;
Perché nessun operatore ignorando gli studi sulla morte in utero dia informazioni sbagliate ai genitori in lutto;
Perché nessun operatore debba brancolare nel buio quando assiste una donna colpita da morte prenatale o perinatale e sia costretto a improvvisare un sostegno per il quale non è preparato;
Perché il dolore, fisico e psicologico, vengano riconosciuti e debitamente trattati, insieme alla donna, e non al suo posto o “Per il suo bene”;
Perché ogni bambino possa essere riconosciuto in quanto tale e trattato con dignità e rispetto, e non come un ammasso di cellule morte, o un reperto anatomico privo di significato;
Perché anche l’Italia metta i suoi cittadini, genitori e operatori, nella condizione di poter lavorare al meglio con tutte le donne e tutte le coppie in gravidanza, anche quando la gravidanza esita in un lutto;
Perché l’abuso e la mancanza di rispetto durante un evento traumatico amplificano il trauma, aggiungendo una traumatizzazione secondaria e ostacolano l’elaborazione del lutto;
Perché l’abuso e la mancanza di rispetto durante un evento traumatico ostacolano la resilienza della vittima, e complicano l’accesso alle sue risorse interiori;
Perché l’ignoranza è nemica della resilienza.
Oggi, 25 Novembre 2017, sarò in Parlamento #InQuantoDonna ma soprattutto #InQuantoDonnaMedico #InQuantoMammaSpeciale per tutte le famiglie di CiaoLapo e per tutti i nostri operatori, che ogni giorno, con dedizione e responsabilità, lavorano con noi per cambiare le cose e umanizzare le cure. Anche dopo un lutto perinatale.
Grazie alle ragazze di #bastatacere, rispettose compagne di viaggio;
Grazie alle mie amiche ostetriche, sagge e preziose;
Grazie ai miei maestri, da cui ho imparato che senza ascolto e rispetto non c’è curriculum che tenga;
Grazie ai nostri bambini, continua fonte di ispirazione e bellezza.