La morte di un bambino non ancora nato o appena nato è spesso accompagnata da un drammatico silenzio: il bambino non piange, gli operatori ammutoliscono, il tempo improvvisamente si dilata e si ferma. La realtà così come è diviene insostenibile, e può essere affrontata solo a debita distanza.
Come se non ci appartenesse realmente, ma fosse un film. Come se potessimo a un certo punto riannodare i fili spezzati, del prima e del dopo, e ricominciare da capo un attimo prima del Silenzio.
Il silenzio della nascita – morte è un segno indelebile, tragico e fondante, che sancisce per sempre e contemporaneamente la presenza e l’assenza di quel bambino amato nelle loro vite di genitori e familiari.
Questo silenzio fa da cornice a un incubo surreale: i genitori si confrontano con un esperienza indesiderata, irrazionalizzabile, innaturale, quella di sentirsi genitori, di essere pronti a fare i genitori nella pratica quotidiana ma di essere genitori “sospesi”: fermi al nastro di partenza, fermi in un eterno fotogramma.
La genitorialità, pensata, sognata, sperimentata nella mente e attraverso il corpo proprio e del bambino, è destinata a rimanere incompiuta: questo non-finito ci toglie le parole. Dopotutto, non ci sono parole per definire il genitore che perde un figlio, come se questo sol pensiero fosse di per se stesso, impensabile e dunque indicibile.
La ferita esistenziale per le coppie è di grande portata: i genitori spesso impiegano anni per tornare a una vita piena di autentica bellezza, di significato e di progettualità.
Molti genitori dopo il lutto perinatale precipitano nel silenzio, interiore ma anche esterno. Vivono come immersi in un silenzio infinito ed isolante, da cui nessuno sembra disposto a proteggerli.
Nessuno parla, nessuno condivide quella morte e ancor prima quella vita; nessuno o pochissimi sono interessati ad ascoltare la storia di quel bambino prima della sua morte e le emozioni dei genitori di fronte a quella morte.
Il silenzio diventa quindi fuga, evitamento e lontananza: questo silenzio è un rischio per la famiglia in lutto che invece è avida, almeno nel cuore, di supporto, dialogo, ascolto.
Per questo motivo è molto importante fare buon uso del silenzio.
Il silenzio infatti non è solo assenza, negazione, indifferenza.
Esiste un tipo di silenzio che andrebbe privilegiato quando siamo accanto alle persone che attraversano un momento di grande dolore o di difficoltà.
Andrebbe privilegiato anche quando SIAMO NOI a affrontare un momento di grande dolore e difficoltà. Potremmo, per primi, usare, per noi, questo stesso silenzio benefico.
Parlo di un silenzio caldo e vivo: un silenzio presente a se stesso, prezioso perchè fecondo e onesto. Un silenzio immerso nella realtà, eppure solido. Un silenzio ponte e non un silenzio dissociativo.
Questo silenzio, inteso come accoglienza, partecipazione e presenza non giudicante nel qui ed ora è una risorsa preziosa di cui tutti noi dovremmo poter disporre.
Sarebbe importante essere abituati fin da piccoli a questo tipo di silenzio: un silenzio che è promessa, presenza, risorsa.
Un silenzio che abbiamo perduto, e pensiamo di non poter trovare più. Che rifuggiamo, a volte, perchè abbiamo perso l’abitudine a stare in contatto con noi stessi, le nostre emozioni e i nostri pensieri, così come ci vengono.
Invece: il silenzio può accoglierci e confortarci se apriamo dentro di noi uno spazio per il lutto e per la narrazione di quel lutto, in primo luogo a noi stessi; quando viviamo il tempo sospeso occorre molta forza per riuscire a individuare uno spazio interiore per riflettere sul lutto iniziandone l’integrazione nella nostra vita.
Concedere a noi stessi quello spazio di ascolto e di rispetto per il dolore che proviamo non è un operazione così scontata, direi piuttosto che è operazione dimenticata e ripudiata, in una cultura tanatofobica come la nostra.
Lavorare quel silenzio, della mente, prima, del cuore, poi, soprassedere all’aridità che invade la nostra vita, che snatura la nostra identità precedente alla perdita, e porsi in ascolto, diviene dunque strumento per riprendere la vita e “curare” il lutto.
La narrazione del proprio percorso si inserisce in questo ambito come un esempio di ascolto di sè e degli altri privilegiato e fecondo. Trasformativo, in molti casi.
Raccontarsi, leggere le proprie e le altrui narrazioni, restare in ascolto di se stessi e di altri genitori rappresenta il primo passo del percorso, e lo allevia di tante sofferenze legate alla solitudine e all’isolamento.
Buon silenzio consapevole.