Il punto sui diritti umani applicati alla salute perinatale.
Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza
Questa frase apre la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che è nata il 10 Dicembre del 1948 in seno alle Nazioni Unite. (leggi l’intero documento qui)
Le premesse dell’articolo 1 sottolineano come prioritario un valore che oggi ai giorni nostri rischia di essere considerato vecchio, discutibile e desueto. Un valore un po’ “sfigato”, per dirla come i giovani, una roba da romantici di fine ottocento.
Lo spirito di fratellanza nella nostra società attuale non è necessariamente il primo motore delle azioni quotidiane degli uomini e delle donne: se così fosse, a distanza di settantuno anni da questa dichiarazione, non dovremmo lavorare quotidianamente per promuovere il riconoscimento ed il rispetto dei diritti umani, per ricordarne l’esistenza e per rinfrescare la memoria dei più distratti.
Come spesso accade nella storia dell’uomo, la natura va a salti, ad urgenze, si muove più in risposta a fenomeni acuti che con reale e condivisa lungimiranza. Nel 1948 era sicuramente urgente porre rimedio a sistematiche, chiare e ignobili violazioni dei diritti umani, riaffermando i valori come universali e promuovendone l’adozione da parte di tutti i paesi membri.
Guardando all’indietro, è chiaro che di strada ne è stata fatta tanta, è chiaro che i nostri nonni e bisnonni hanno permesso un sostanziale cambiamento e miglioramento delle condizioni di vita generali di tutti gli esseri umani. Quantomeno ci hanno provato, ottenendo un globale cambiamento culturale in tempi relativamente brevi, su molti dei temi elencati nella dichiarazione universale.
È altrettanto chiaro, però, che stante la preziosa e innegabile parte di lavoro svolta fino a qui, molto ancora bisogna fare per far sì che i diritti umani non siano solo belle parole scritte su carta e rispolverate in occasione delle giornate dedicate, ma siano acquisiti culturalmente da tutti i cittadini e le cittadine.
Diritti umani come patrimonio universale delle bambine e dei bambini che si affacciano al mondo e raccolgono per anni ciò che noi adulti seminiamo, nel bene e nel male. A partire da quando sono nella pancia, e poi via e via, al momento del loro parto, del primo sguardo con i genitori, all’ingresso nella loro famiglia nucleare e allargata, al nido e nella scuola dell’infanzia, fino alla scuola superiore, all’università o al mondo del lavoro.
Bambini e bambine crescono e subiscono ciò che facciamo, ciò che non facciamo, ciò che è rispettoso e ciò che non lo è. E imparano da noi.
Da quelli che, secondo l’articolo uno, dovrebbero stare al mondo mossi da spirito di fratellanza e reciprocità.
Per fare bene il bene. Per rispettare se stessi e contemporaneamente gli altri, senza anteporre i propri diritti umani ai diritti umani altrui.
In particolare, nell’ambito della salute perinatale e dell’educazione, che sono poi i due principali ambiti di attività di CiaoLapo, il lavoro sui diritti umani è ancora incompleto, poco riconosciuto, in qualche caso profondamente ostacolato, nel nostro paese e in numerosi altri paesi ad alto, medio e basso sviluppo economico.
L’articolo 25.2 della dichiarazione dei diritti umani cita:
La maternità e l’infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti i bambini, nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della stessa protezione sociale.
Le “speciali cure e assistenza” sono ormai acclarate dalle principali realtà internazionali che si occupano di salute, sanità e diritti; sono ormai acclarate anche dai movimenti spontanei di madri che sono presenti in moltissimi paesi nel mondo.
Le speciali cure fondano la loro base strutturale su questi valori: il rispetto, l’informazione chiara ed esauriente, la possibilità di scegliere, l’accesso alle cure migliori possibili che esistano, senza discriminazioni, di nessun tipo. Per esempio, avere una patologia psichiatrica o avere una vita difficile non dovrebbero essere ragioni per essere discriminate. Parlare una lingua diversa da quella del paese ospite non dovrebbe essere motivo di discriminazione. Niente dovrebbe, niente sarà mai motivo giusto di “discriminazione” e violazione dei diritti umani. Questi elencati sono solo un piccolo esempio.
I principi della dichiarazione sono chiari.
Sono pubblici, li troviamo in rete nei documenti ufficiali, sottoscritti da organismi internazionali, enti, professionisti, scienziati, ricercatori e madri.
Sappiamo che esiste una linea normativa di comportamento, basata su principi saldi nella dichiarazione dei diritti umani e nei documenti ufficiali.
Sappiamo anche che il sistema di cura, sanitaria e sociale che sia, non si muove in automatico sulla base delle indicazioni internazionali e dei documenti di riferimento.
Non sempre le aziende ospedaliere, le Regioni o i Ministeri si muovono avendo come primo obiettivo il rispetto lettera per lettera dei documenti ufficiali.
C’è sempre qualcosa che resta indietro, stante la complessità del tema “L’essere umano e i suoi diritti” e delle sue numerose ricadute teoriche e pratiche.
C’è sempre ad esempio chi dimentica che liberi e uguali non è solo il nome di un partito politico, ma è soprattutto, alla lettera, la definizione che inquadra chi ho di fronte a me: un uomo, una donna, per definizione libera, come sono libera io stessa ed uguale, a me, nei diritti.
Libera, uguale e per giunta, per definizione, come una sorella.
Solo riconoscendo la libertà e l’uguaglianza di chi sta di fronte a me, rispetto a me, io posso rispettare pienamente i diritti umani.
C’è ancora chi non è del tutto consapevole del ruolo che riveste in società e del potere che gli viene conferito dal ruolo.
Quando si parla di salute e di determinanti di salute, è innegabile che gli operatori sanitari tutti (così come i docenti) abbiano un ruolo di grande responsabilità e di grande potere.
Occupano, occupiamo, essendo io stessa un operatore sanitario, un ruolo prestigioso, perché abbiamo competenze professionali che possono contribuire al benessere degli altri, facendo la differenza per il singolo, le famiglie e la comunità.
Il nostro ruolo nella società è un ruolo che assume un senso pieno quando viene svolto nel rispetto dei diritti umani. Con tutti i limiti sull’intervento, sulle soluzioni e sulle scelte che noi faremmo, anche per gli altri, che comporta riconoscere i diritti altrui in quanto tali.
Quello che è possibile realizzare per il singolo e la società, prendendosi cura dell’altro come fratello, nel rispetto della sua libertà e del suo essere uguale a me, nei diritti, ma anche legittimamente diverso nelle scelte di vita e nella storia di vita, è la promozione pratica e non più soltanto teorica, del benessere psichico, fisico e bio-psico sociale della nostra società.
Abbiamo competenze che possono fare la differenza nella promozione della salute.
Abbiamo il potere di aiutare le persone a migliorare le loro condizioni generali di salute.
Abbiamo il potere di fare la differenza, quando ci è richiesto.
Questo potere, datoci dalle competenze e dal ruolo che ricopriamo sul sensibilissimo tema della promozione della salute, può essere usato al meglio, se teniamo a mente i diritti umani.
Usare bene il potere dato dal sapere significa costruire dialoghi rispettosi e portare il nostro sapere in modo costruttivo alle persone che ne hanno bisogno, costruendo un’opportunità di scelta che sia davvero libera (ahimè, le scelte per partito preso, quelle per paura, quelle che sono frutto di condizionamenti culturali o politici privi di basi scientifiche valide non sono scelte libere e profonde, sono spesso agiti, per protesta, per difesa, per sottrarsi a relazioni di cura basate sul potere e non su ciò che di meglio si può fare nel singolo specifico caso. Di questo importantissimo inciso parleremo in dettaglio in seguito).
Il potere conferito dal titolo, dalla professione, dalla posizione nelle istituzioni e nei luoghi di cura, dall’essere “esperti” in un campo così incisivo sul benessere del singolo e delle popolazioni come quello della professione sanitaria o pedagogica può tuttavia essere usato anche “al peggio”.
Avviene tutte le volte che usiamo il potere per sostituirci alla persona che dovremmo aiutare, per condizionarla, per ridurla in una situazione di dipendenza o sottomissione. Quando usiamo il potere per limitare i diritti umani.
I modi per esercitare il potere di noi operatori sanitari sono tanti, e sono spesso derivati da una visione riduttiva della medicina, la vecchia visione paternalistica per cui il medico e il sanitario decidono e il paziente, in quanto tale, annuisce (sennò che paziente è?!?!, potrebbe dire qualcuno).
Se il paziente non annuisce, ma si mostra lecitamente incerto (per il semplice motivo che è del suo corpo che stiamo parlando, della sua psiche, della sua salute, o di quella di genitori anziani o figli piccoli, di cui ha la responsabilità), spesso l’operatore sanitario, quasi sempre il medico, in modo più o meno bonario, persuade il paziente a fare ciò che deve fare “per il suo bene”.
La medicina paternalistica del tempo che fu è nata in un momento storico di grande disparità nell’istruzione della popolazione e di grandi sofferenze dovute ai limiti della medicina del passato, in termini di tecnica, di risorse e numero di morti.
Nel 1948, quando ancora tutto era da fare, il medico paternalistico era poca cosa rispetto ad esempio al matrimonio riparatore, al divieto di divorzio o al divieto di aborto.
Come dire, non c’era spazio, dal punto di vista storico, per analizzare questa tematica e approfondirla, erano altri i diritti umani “urgenti” da ottemperare.
La medicina ha avuto, ed ha, meriti straordinari, che negli anni l’hanno equiparata a una missione e non propriamente a una professione, creando una confusione semantica e anche pratica su chi è il medico, cosa fa, quali sono le sue competenze, i suoi diritti e i suoi doveri rispetto alla popolazione di cui si prende cura.
Essere medico oggi, con l’enormità del sapere e la sua parcellizzazione in mille sottospecializzazioni, con la riduzione delle risorse sanitarie, la grave limitazione data dalla mancanza di colleghi e dall’elevato stress lavorativo ha tagliato via, o comunque notevolmente ridimensionato la riflessione etica e deontologica sul ruolo, sul potere e sul senso di questa professione.
Ha meccanicizzato una professione che per definizione non può essere svolta come l’assemblamento di un elettrodomestico alla catena di montaggio.
Un frigorifero non ha diritti umani da far valere.
Un paziente sì.
Un medico, anche.
Ci siamo scordati di essere tutti parte della stessa categoria, ci siamo divisi al di là e al di qua di una barricata promossa, spesso, da chi ci ha preceduto, da un manipolo di decisori più interessati a se stessi che al rispetto dei diritti umani propri e altrui; abbiamo tollerato, come categoria, condizioni di lavoro sempre più alienanti, dove lo spazio di dialogo e di relazione è inesistente, persino tra colleghi dello stesso turno. Figuriamoci tra operatori e pazienti.
Non è pensabile dialogare col paziente, perchè è visto dalle aziende e dai decisori come una perdita di tempo. Come qualcosa che esce fuori dal paradigma: il medico sa, il paziente impara. Il medico diagnostica, il paziente si cura. Asetticamente. Senza legami.
Eppure, sappiamo bene, lo vediamo tutti i giorni nella pratica clinica, sono sempre più numerosi i “pazienti” che chiedono di riprendere il filo della relazione con i curanti, di essere ascoltati, di essere parte attiva del processo di cura. Sono molti quelli che, quando non ricevono un adeguato feedback relazionale da parte degli operatori, per essere ascoltati arrivano a protestare nel modo che è più consono ai giorni nostri, ossia sui giornali, sui media, oppure prendendo le estenuanti e spesso non necessarie vie legali.
È ormai noto che nei luoghi di cura, in assenza della care, le vie legali per protesta sono intraprese con frequenza assai maggiore rispetto a luoghi di cura magari meno eccelsi, ma più rispettosi dei diritti umani.
D’altro canto vediamo che sono sempre di più i curanti che vanno in burnout, perchè proprio non avrebbero mai pensato dopo 10, 12, 14 anni di studio continuativo, di andare a lavorare a una catena di montaggio umana, a cottimo per giunta, con più pazienti che ore di lavoro in busta paga.
Perlomeno, io non avrei mai creduto che l’amata medicina nel nostro paese potesse diventare questa cosa qua, dove ad esempio si brontola, a volte bonariamente a volte no, la donna che si dilata con troppa lentezza, perchè ci fa perdere tempo e ce ne sono altre 3 da seguire in contemporanea.
È tutto perduto?
Dobbiamo assistere impotenti di qua e di là della barricata all’incomunicabilità di operatori sanitari e “Pazienti”, alla mancanza di rispetto dei diritti fondamentali spacciata come ovvia conseguenza di un sistema che è avvitato su se stesso e che ha tentato di trasformare l’arte medica in una catena di montaggio, riuscendoci così bene da mandare nei matti operatori e utenti?
I pazienti hanno perso la pazienza.
Da anni hanno sviluppato un approccio nei confronti dei luoghi di cura che è da utente attivo, con aspettative più o meno adeguate, più o meno elaborate e più o meno realizzabili. Sta a noi, gli interlocutori privilegiati con il potere del sapere, intercettare di volta in volta queste istanze e capire se e cosa possiamo fare per rispondere a queste aspettative. Imparando, in qualche caso, a trovare un modo rispettoso per dire che alcune aspettative, secondo il nostro punto di vista, non sono realizzabili. Mantenendo tuttavia il principio, sacro e inviolabile del rispetto per il pensiero del nostro interlocutore. Senza cedere alla diffusa tentazione di ridicolizzarlo, sminuirlo, minacciarlo, allontanarlo per punizione. Senza violare i suoi legittimi diritti a essere liberi e uguali.
Le persone sono oggi più competenti rispetto al diritto di una relazione basata sulla fiducia reciproca e sul dialogo, che ha sgombrato il campo dai monologhi paternalistici che piacevano ai nostri nonni con la seconda elementare e la morte negli occhi per malattie oggi evitabili, come la difterite o l’influenza spagnola, che marchiavano con la morte la disparità tra chi sapeva e chi non sapeva, tra chi poteva curarsi e chi no. Oggi la medicina ha permesso di prevenire e trattare in modo appropriato la maggior parte delle malattie. Questo progresso, come è avvenuto per i diritti umani, ha permesso a medici e operatori illuminati e ai pazienti di lavorare sul rapporto medico paziente in modo più approfondito, dettato più dai diritti che dall’urgenza di salvare le popolazioni dalle epidemie.
Stare tutti meglio permette di valorizzare le parti in causa, e di metterle intorno a un tavolo decisionale, in cui sul corpo, ciascuno può esprimere un parere ma soltanto il proprietario del corpo può avere l’ultima parola. Esercitando il suo diritto, di cui all’articolo 1.
L’assioma “Lo ha detto il dottore = si fa come ha detto lui, perchè lo sa lui cosa devo fare del mio corpo” non funziona più, o comunque non è più così scontato dappertutto.
Oggi, le donne e gli uomini hanno bisogno di relazioni di cura e di reciprocità.
Come possiamo pensare un modello di salute e di cura che rispetti i diritti umani, la scienza e le sue conquiste, chi è curato e chi cura?
Una chiave possibile, per facilitare questo passaggio nel modo più lineare possibile e senza troppe criticità (leggi: senza perpetrare battaglie tra curati e curanti, e senza innalzare altre barricate sterili e controproducenti, di cui non avvertiamo alcun bisogno) è l’istruzione di tutte le parti in gioco, basata sui diritti umani.
A questo proposito, l’articolo 26.2 del documento dichiara:
L’istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi, e deve favorire l’opera delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace.
Se combiniamo insieme questi due articoli e li leggiamo dopo avere ascoltato o letto le storie di gravidanza, parto e lutto di molte madri e di molti padri, in Italia e nel mondo (per approfondimenti: leggi il report dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sulla morte in gravidanza e leggi le parole della speciale relatrice delle nazioni unite sulla violenza ostetrica come violazione dei diritti umani, qui in italiano curato da OVOItalia), abbiamo chiara una linea di indirizzo, “molta resa, poca spesa” come direbbe la mia nonna.
Basta lasciar cadere il potere agito per il peggio, dall’una e dall’altra parte della barricata.
Basta sedersi accanto, curanti e curati, e costruire con rispetto e metodo un’idea di salute rispettosa dei diritti umani. Come fratelli. Come sorelle.
Un grazie particolare alle madri di CiaoLapo e del La Goccia Magica, un grazie particolare alle colleghe che credono nella medicina e nel rispetto, alle operatrici sanitarie che ogni giorno portano il rispetto nelle nascite, anche nelle nascite ad occhi chiusi e senza respiro, un grazie agli uomini, ai maschi, che rispettano la complessità della gravidanza del parto e del puerperio sulla fiducia, riconoscendone la complessità senza poterla vivere sulla loro pelle e anche per questo rispettando i corpi delle donne e dei bambini.
Grazie alle donne che hanno scritto, scrivono e scriveranno per dare voce con dignità alla violenza subita.
Perchè un’altra cura è possibile. È già qui.
Il vecchio modello, deve fare le valigie. Ha fatto il suo tempo e i suoi danni.
Adesso, basta.