Il progetto Memory Box è uno dei progetti permanenti di CiaoLapo. Abbiamo iniziato a studiare la memory box nel 2007, quando a Birmingham, al convegno dell’International Stillbirth Alliance, abbiamo visto per la prima volta le memory box esposte sui tavoli delle associazioni provenienti da diversi paesi. Ricordo bene il profondo senso di cura, rispetto e vicinanza che scaturiva da quelle piccole scatole e dal loro ordinato e delicato contenuto.
Di ritorno da Birmingham pieni di domande senza risposta (Perchè dappertutto hanno la memory box? Perchè da noi non c’è? È uno strumento utile? Come possiamo adattarlo alla nostra cultura?), abbiamo iniziato a studiare bene la letteratura, le linee guida, e le testimonianze e a lavorare intensamente sul tema dei ricordi nel lutto perinatale anche con le nostre famiglie, nel nostro paese.
Nel frattempo abbiamo iniziato a proporre una semplice raccolta dei ricordi (impronta delle manine e dei piedini) in qualche formazione e a qualche congresso: l’accoglienza è stata molto tiepida, per non dire fredda. In qualche caso, davvero glaciale. Ricordo bene molte scene come questa: io che mostro in foto una memory box, io che mostro le testimonianze dei genitori contenti di raccogliere i ricordi, io che mostro il dispiacere dei nostri genitori italiani di non avere alcun ricordo del loro bambino mentre i volti in platea cambiano espressione, certe mascelle si irrigidiscono, certe bocche sbuffano, certi occhi si alzano al cielo, certe labbra si serrano. Non è stato facile per niente, raccontare ai colleghi di area perinatale l’importanza dello strumento Memory Box, e la sua correlazione con l’elaborazione del lutto e una migliore gestione del trauma. Tuttavia, io possiedo una qualità che torna molto utile in certe situazioni complicate: anche se nove persone su dieci sbuffano, io mi alleo con quell’unica e sola persona a cui, mentre parlo, brillano gli occhi. Che sia per commozione, o per illuminazione, o per tutte e due, difficilmente infatti mi lascio scappare due occhi che brillano. È stato così anche per la Memory Box, che ha reso lucidi e lucenti prima gli occhi delle madri e dei padri soci di CiaoLapo e poi quelli di alcune ostetriche e infermiere. Qualche ostetrica e qualche infermiera ci ha contattato per raccontare che loro, all’estero, avevano studiato e usato la memory box e che però no, in Italia, non potevano usarla e anzi, erano redarguite e bullizzate per questa loro “mania” di proporre ai genitori di raccogliere i ricordi. Ci hanno contattato anche delle madri e dei padri pionieri e coraggiosi che, facendosene un baffo dei divieti e delle facce piene di disapprovazione si sono auto-organizzati comunque in autonomia per scattare foto, prendere impronte, vestire i loro bambini e bambine.
Abbiamo quindi messo insieme per anni esperienze, pareri e proposte, abbiamo misurato gli esiti in termini di benessere tra chi aveva ricevuto e chi non aveva ricevuto i ricordi. Con molta intraprendenza, alcune ostetriche e infermiere si sono fatte tramite nelle loro strutture per iniziare ad usare la memory box e, insistenza dopo insistenza, convegno dopo convegno, finalmente, nel 2012 abbiamo iniziato a distribuire le nostre prime scatole. In parallelo, abbiamo continuato un attento monitoraggio della raccolta dei ricordi nel nostro paese e come migliorarla, insieme a genitori e operatori ospedalieri.
Le nostre Memory Box hanno cambiato negli anni grandezza, spessore, forma (rettangolari, quadrate, alte o basse) e si sono via via arricchite di simboli e oggetti, selezionati anno dopo anno attraverso i feedback di operatori e genitori. Oggi la nostra Memory Box contiene 13 parti, ciascuna delle quali ha una funzione precisa per favorire l’elaborazione del lutto.
Le due parti che più di ogni altra hanno messo in crisi gli operatori sanitari ai convegni e alle formazioni sono la cornice porta fotografie, che rimanda alla necessità da parte del personale di fare e conservare le foto del bambino e i pupazzi di stoffa.
Ho personalmente assistito, purtroppo più di una volta, in contesti formativi, a reazioni di profondo disagio, rabbia e agitazione da parte di “colleghe” che si sono messe a strepitare davanti a…un pupazzo di stoffa.
Ci è stato chiesto di toglierlo. Ci è stato chiesto di regalarlo ad altre persone del reparto. Ci è stato detto che è macabro, che è inutile, che “non si regalano pupazzi a bambini morti che non ci possono giocare”, che è meglio usarlo per i fratelli che verrano e via così.
Le reazioni estreme intorno al lutto perinatale mi fanno sempre molto riflettere. In un altro post ho parlato della paura che spesso si frappone tra chi vive il lutto e le persone intorno ed ho sottolineato quanto questa barriera di paura intorno al lutto perinatale comprometta o ostacoli la raccolta dei ricordi e l’elaborazione del lutto. Ogni volta che un operatore sanitario, una nonna, un padre cominciano a inveire contro la raccolta dei ricordi e cercano di impedirla o di dissuadere la madre o una collega del reparto dal farla, una parte di me, quella comprensiva, vorrebbe abbracciarlo forte, accarezzargli la testa e portarlo al parco, un’altra parte, quella della madre senza ricordi, vorrebbe spingerlo fuori dalla stanza a pedate. Quell’altra parte, quella della studiosa, invece sta: mostra tabelle, diagrammi, p<0,001, testimonianze dei genitori, case-libri-auto-fogli di giornale, sapendo che tutto questo decennale spiegare potrebbe essere completamente inutile. La paura del bambino morto fa così paura da sminuire gli studi più accurati e persino le richieste più accorate, come quelle delle madri che implorano di poter vestire o fotografare il loro bambino a cui viene detto, ancora oggi, che “è meglio di no”.
In dieci anni di memory box abbiamo avuto tanti pupazzi: il primo è stato un cagnolino di peluche, poi abbiamo avuto i coniglietti, gli orsetti HOPE fatti all’uncinetto dalle donne siriane per poter mandare i loro figli a scuola, gli elefantini di cotone realizzati insieme a Flavia Zuncheddu e a due madri di Ciaolapo imprenditrici di Stelline a Pois, e infine qualche leone, qualche volpe e qualche cerbiatto, per arrivare poi al progetto nato grazie al team di Ashoka di cui vi parlerò in esteso in un prossimo post (ma potete intanto sbirciare la foto di copertina di questo articolo, per avere un’idea.)
La maldisposizione nei confronti delle memory box e in particolare dei pupazzi di stoffa è, a mio parere, indice di una maldisposizione piuttosto preoccupante nei confronti della tenerezza che, di fatto, nel lutto perinatale sopravvive alla morte. I genitori in lutto soffrono. Soffrono immensamente l’assenza fisica, patiscono per il progetto spezzato, si disperano di nostalgia per la relazione interrotta, ma sono al tempo stesso ben capaci di conservare, intatto, il nucleo, l’essenza della relazione che hanno sviluppato, con il bambino, la bambina, desiderati, attesi e vissuti per il tempo che è stato possibile.
In questo contesto, che dovrebbe essere chiaro soprattutto a chi dice di occuparsi di lutto perinatale o di averlo studiato, i pupazzi di stoffa non sono “vezzi” per riempire la scatola e non sono “macabri”, perché sono simboli. Simboli eterni delle tenerezze scambiate, anche se per un tempo troppo breve, tra genitori e nascituro.
Anche le nostre memory box sono simboli (e non abbiamo inventato niente, noi genitori in lutto moderni, basti pensare ai corredi funebri dei bambini nelle necropoli fenicie): raccontano e sanciscono una storia che, ancor prima di arrivare al lutto, è stata, ed è, una storia di vita. Tenerezza compresa.
A Graziella e a Mery, per avere portato le Memory Box nel loro ospedale, nonostante le bocche piegate all’ingiù e l’odio di certuni per la tenerezza che non muore.