Intervista a Gaetano Bulfamante
a cura di Claudia Ravaldi, medico psicoterapeuta, fondatore e presidente di CiaoLapo Onlus,
Gaetano Bulfamante è Professore Associato di Anatomia Patologica, Università degli Studi di Milano, Direttore Sezione di Anatomia Patologica, Dipartimento di Scienze della Salute, Università degli Studi di Milano; Direttore della U.O.C. di Anatomia Patologica, Citogenetica e Patologia Molecolare, A.O. San Paolo di Milano.
Dal 2007 CiaoLapo si occupa attivamente degli aspetti medici della morte in utero, promuovendo la formazione del personale italiano, l’aggiornamento di medici ginecologi e ostetriche, e collaborando in Italia e all’estero con i più prestigiosi centri di ricerca sulla gravidanza a rischio e sulla morte perinatale.
Un esempio tra i tanti del nostro impegno, la partecipazione al lavoro monografico di Lancet sulla morte in utero, la presenza su invito come relatori a vari congressi in materia (a Milano, con l’associazione Vita in Culla e il centro Lino Rossi, a La Spezia con coloro che si occupano di SIDS SIUDS e ALTE, a Bergamo in un recente ed interessante convegno specifico su questa tematica).
L’obiettivo, in accordo alle linee guida internazionali, è recepire le proposte OMS (organizzazione mondiale della sanità) di abbassare in Italia e nei paesi ad alto sviluppo la frequenza della natimortalità almeno del 20%, cioè salvare un bambino su cinque, e quindi circa 400 bambini ogni anno.
A questi fini, riteniamo sia fondamentale fare informazione e chiarire gli aspetti scientifici e quelli giuridici che disciplinano questo campo troppo spesso ignorato o trascurato nella routine quotidiana degli ospedali italiani. Su nostra richiesta, un’interrogazione parlamentare nello scorso anno ha sollevato il problema, ed il Ministro Balduzzi ha sostanzialmente risposto citando un testo pubblicato dal ministero nel 2006 e distribuito in tutti i punti nascita (vedi sezione documenti di questo sito); come genitori e professionisti dedicati a questo particolare settore, ci piacerebbe capire quanto e come è stato recepito questo testo, e se sono presenti normative nazionali cui le aziende ospedaliere dovrebbero fare riferimento.
A questo scopo intervistiamo oggi il Prof. Bulfamante su una questione delicata ma estremamente importante per le famiglie e per la ricerca, di cui si sa poco e spesso in maniera confusa. Parliamo dell’autopsia e dell’esame istologico postmortem e delle leggi che le regolamentano in Italia.
Professore, esiste una legge nazionale che regolamenti l’autopsia sui bambini nati morti?
La normativa sulla richiesta dell’autopsia è regolata da una Legge dello Stato, valida quindi su tutto il territorio nazionale. Questa Legge è il “Regolamento di Polizia Mortuaria”, reso applicativo tramite D.P.R. 10.09.1990, n°285.
Le Regioni possono decidere in modo autonomo? E le Aziende?
E’ bene ricordare che nell’ambito delle autonomie regionali riguardanti l’assistenza sanitaria molte Regioni e anche diversi Comuni hanno emanato testi propri relativi ad alcuni aspetti applicativi della Legge sopracitata (che, in quanto Legge, non può essere eliminata se non attraverso un atto abrogativo o una nuova Legge complessiva in materia); tuttavia le modifiche sono sostanzialmente relative (e non potevano fare altrimenti) agli aspetti funerari (norme per la costruzione dei cimiteri, trasporto della salma, regole relative al seppellimento, cremazione, ecc.) o epidemiologici (ufficio competente alla registrazione del decesso, etc) lasciando invariata la parte relativa agli approfondimenti diagnostici.
Cosa è l’autopsia per la Legge Italiana?
Secondo il Regolamento di Polizia Mortuaria, la richiesta di autopsia per riscontro diagnostico (cioè quella eseguita dall’anatomopatologo per definire le cause del decesso -modalità e malattie/condizioni che lo hanno prodotto-, cosa diversa dall’autopsia giudiziaria eseguita dal medico legale e ordinata dal Magistrato con il fine di rispondere a precisi quesiti relativi a un presunto contesto doloso o colposo) è “un atto medico”, una libera scelta del curante che non è soggetto all’approvazione dei congiunti del deceduto (cosa che differenzia la nostra normativa da quella anglosassone, per la quale l’esecuzione del riscontro diagnostico deve essere approvata dai genitori -se minore o non sposato e loro ancora viventi- o del coniuge o dai figli se vedovo). Va ricordato che in regime di assistenza ospedaliera il “curante” è un qualsiasi medico della struttura che abbia partecipato all’iter diagnostico/terapeutico. In sintesi, sulla base di questa Legge è il medico che decide autonomamente se eseguire o meno l’autopsia per riscontro diagnostico. Va tenuto presente che nello spirito della Legge questa norma era stata formulata per favorire l’esecuzione del riscontro diagnostico, in un momento storico in cui nel sentimento comune italiano questa pratica era spesso vissuta come un “oltraggio al defunto”, particolarmente nell’immediatezza del decesso.
Sono previste differenze nel caso dei bambini nati morti?
Nel 1999 questa Legge generale è stata integrata da una norma specifica per “i nati morti” (D.P.C. del 22.07.1999 n°170): per essi è resa obbligatoria l’autopsia. Va qui sottolineato che per la normativa italiana una nuova direttiva o Legge “particolare” (che si occupa cioè di un aspetto specifico all’interno di una Legge generale) perfeziona il testo precedente e impone la nuova procedura nel caso specifico. In sintesi in Italia è obbligatorio eseguire l’autopsia per riscontro diagnostico dei feti “nati morti”, indipendentemente dalla volontà del medico curante.
Quindi l’autopsia, come riscontro diagnostico delle cause che hanno provocato la morte in utero del bambino in gestazione, andrebbe sempre fatta?
Qui ci sono ad oggi una serie di problematiche. Purtroppo il DPC n°170 non ha dato la definizione di “nato morto”, e quindi non è univoca la settimana di gestazione da utilizzare per differenziare la natimortilità (MEF) dall’abortività tardiva (condizione che ricade comunque negli indirizzi del D.P.R. 10.09.1990, n°285 e non è esente da possibilità di autopsia). Da molti anni l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha definito che si deve considerare come “nato morto” un feto deceduto in utero e partorito ad età gestazionale pari o superiore a 22 settimane (21 settimane + 7 giorni) o, se non è definibile con sicurezza l’età gestazionale, con un peso pari o superiore ai 500 grammi.
In Italia cosa accade in proposito?
I diversi Stati continuano ad applicare criteri tra i più vari: in Italia, in assenza di una specifica normativa di Legge, succede un po’ di tutto e per lo più ci si riferisce al criterio utilizzato dall’ISTAT che pone a 180 giorni di gravidanza (25 settimane e 5 giorni) il limite per distinguere un aborto (soggetto se partorito incapace di sopravvivenza e legalmente “parte della madre”, tanto che viene registrato come “feto di …..”) da una soggetto “nato morto” (soggetto se partorito capace di sopravvivenza e legalmente riconosciuto come cittadino italiano “nato morto”, tanto che acquisisce il cognome del padre -quando da esso riconosciuto- e una serie di specifici diritti legali). E’ evidente che questo limite temporale è oggi anacronistico, visto che grazie alle cure mediche anche nati vivi di bassa epoca gestazionale o basso peso hanno buone possibilità di sopravvivenza e quindi l’utilizzo del criterio “capacità di sopravvivenza” per differenziare l’aborto dalla MEF appare debole per giustificare il “posizionamento dell’asticella” a 180 giorni di gravidanza. Anche una più recente Legge italiana (n°31 del 02.02.2006) relativa alla “SIDS e alla morte inaspettata del feto di età gestazionale superiore alla 25^ settimana” ad esempio (sebbene sia nella sua fase “non applicativa”, mancando del suo protocollo attuativo), dà una indicazione temporale tardiva della MEF, lontana dalla definizione OMS. Quindi la Legge italiana, per come è formulata, in mancanza di definizione chiara di nato-morto, attualmente copre solo una parte dei casi che potrebbero obbligatoriamente beneficiare dell’indagine diagnostica.
Cosa potremmo dire ai genitori colpiti da lutto perinatale, considerando che l’autopsia per motivi culturali e affettivi è ancora un atto “emotivamente” difficile da accettare?
L’esecuzione dell’autopsia per riscontro diagnostico dovrebbe essere la prima cura e il primo interesse del medico, sia per comprendere come e perché è avvenuto il decesso, sia per manifestare concretamente alla famiglia del bambino il proprio interessamento empatico all’accaduto. Inoltre, anche se non è Legge, il non eseguire tutto quello che è ragionevolmente possibile fare (e una autopsia fetale non è un atto con costi o difficoltà irragionevoli) vìola uno dei diritti fondamentali del paziente: il diritto alla migliore definizione possibile della diagnosi. Questo diritto diviene ancora più forte nel caso in cui la patologia possa ripercuotersi su successive gravidanze o su altri membri della famiglia.
Mi rendo conto dell’impatto emotivo sui genitori della notizia di esecuzione di autopsia sul proprio figlio, ma questo esame va fatto uscire dall’immaginario collettivo di “atto profanatorio” che nei Paesi latini lo ha circondato per secoli. Non vi è nulla di diverso rispetto ad un intervento chirurgico: è un atto medico altamente complesso mirato allo scopo più elevato, quello di cercare al meglio di fare la diagnosi più completa possibile. Mentre nei Paesi di cultura austro-ungarica questo concetto è “passato” da secoli (tutti i deceduti, anche morti al proprio domicilio, erano sottoposti ad autopsia per difendere la salute collettiva, monitorando la diffusione delle malattie e individuando prontamente i focolai di quelle infettive), in Italia la normativa dell’inizio del ‘900 impose che all’autopsia non potessero essere sottoposti, tra gli altri, i pazienti “solventi”, cosa che la fece identificare, oltre che come un atto irriverente verso il deceduto, anche un atto che, riservato ai “poveracci”, risultasse anche infamante alla sua condizione sociale. Personalmente penso che da questo punto di vista sia “passata molta acqua sotto ai ponti”: oggi, giustamente, sempre più genitori desiderano che il riscontro diagnostico venga eseguito, nella convinzione che rappresenti una tappa cruciale per evitare che quanto accaduto si ripeta.
Grazie professore!
Potete scaricare la brochure di CiaoLapo sul ruolo dell’autopsia nella morte perinatale nella sezione Documenti