Articolo di Claudia Ravaldi sull’Huffington Post del 19.05.2014
Perché in Italia non vedremo Return to Zero (e in molti altri paesi invece sì)
“Chi tace acconsente – No, chi tace sta zitto”
Novello Novelli, Francesco Nuti
Madonna che silenzio c’è stasera
Prato, 1982
#Breakthesilence è l’hashtag che accompagna la promozione mondiale del film Return to Zero, diretto da Sean Hanish.
Quest’opera in pochi mesi ha coinvolto ed entusiasmato migliaia di persone in tutto il mondo, è stata presentata a vari festival (ha aperto tra l’altro il Rome Independent Film Festival il 16 Marzo 2014) nonché trasmessa in prima visione dal canale Lifetime in molti paesi del mondo (ma non in Italia) il 17 e il 18 Maggio 2014. “Return to Zero” è il primo lungometraggio americano ad affrontare la morte in utero e le sue conseguenze sulla coppia, sulla famiglia e sulla società. Gli eventi narrati nel film sono ispirati alla vera storia del regista e della moglie: una coppia all’ultimo mese di gravidanza si prepara all’arrivo del suo primo figlio, che però purtroppo morirà in utero pochi giorni prima della nascita. Il film racconta i tentativi della coppia di reagire e di sopravvivere all’evento, e focalizza i passaggi chiave dell’elaborazione del lutto, i rischi cui si va incontro se non si riceve un adeguato sostegno, e soprattutto le difficoltà che la società e le persone in lutto hanno nel relazionarsi rispetto a questo evento. L’obiettivo del film è permettere una visione più realistica e profonda del lutto perinatale anche in chi non ne è direttamente coinvolto, al fine di cambiare il modo in cui comunemente le persone vedono la morte in utero e i suoi effetti sui genitori, le relazioni, le famiglie e l’intera comunità. Il cast è d’eccezione con attori del calibro di Alfred Molina, Paul Adelstein, e soprattutto Minnie Driver (nominata all’Oscar per ‘Will Hunting Genio ribelle‘, nonché a un Emmy e a un Golden Globe per la serie ‘The Riches‘), eccellente protagonista del film in un ruolo che ha definito uno dei più difficili da lei interpretati.
L’obiettivo del regista Sean Hanish è rompere il silenzio.
‘La nostra cultura non si relaziona molto bene con la morte di nessuno. Quando poi si tratta della morte di un bambino o di un neonato, onestamente la gente trova fin troppo arduo anche solo pensarci…’
Abbiamo bisogno, come persone e come società di rompere il silenzio, di rendere visibile l’invisibile, “making seen the unseen“, come scrive un editoriale di Lancet del 2011 dedicato alla morte in utero. Abbiamo bisogno di qualcosa di diverso dall’omertà o dall’indifferenza, per comprendere ed affrontare questo evento. Ogni anno tre milioni di famiglie perdono un bambino a poche settimane o a poche ore dalla nascita. Questo dato, che coinvolge in misura estrema soprattutto i paesi a basso sviluppo economico, riguarda però migliaia di famiglie anche in Italia. Nel nostro paese la morte in utero colpisce circa un bambino ogni 275 nati. Significa che negli ospedali italiani ogni giorno sei bambini nascono senza vita. Questo numero può sembrare piccolo (anche se non piccolissimo, se si pensa che la morte in culla ha un tasso dieci volte inferiore) ma non è trascurabile: non solo per gli aspetti medici relativi alla salute fisica della madre e delle eventuali future gravidanze, ma anche per gli aspetti psicologici, relativi al benessere e all’equilibrio psichico di genitori, familiari e fratelli. In Italia, complici il limitato numero di eventi e la scarsa cultura sociale sui temi relativi al lutto in generale ed alle persone dolenti (così sarebbe preferibile chiamare coloro che sono in lutto) il fenomeno morte perinatale è stato per decenni semplicemente trascurato. I genitori sono stati accolti nel silenzio (e lasciati, spesso soli, nel silenzio di strutture ospedaliere incapaci di accogliere e dialogare), accompagnati nel silenzio a nascite mute e per questo strazianti, congedati nel silenzio, silenziosamente dimessi (“discharged”, si dice in inglese, “scaricati” si potrebbe parafrasare in italiano senza sbagliare troppo). Intorno alle coppie in lutto c’è una voragine di silenzio, quasi mai partecipe, un silenzio imbarazzato, spesso riempito da ridicole frasi consolatorie (è stato meglio così), da luoghi comuni sulla vita e sulla fortuna (non può capitare due volte, è stato solo un caso), da consigli affrettati (fanne subito un altro!) o da critiche insensate (smetti di pensare a quella cosa lì). Anche intorno ai bambini nati morti (i nostri still-born babies, i bambini nati fermi, come si dice nei paesi anglosassoni), cala una cortina di ferreo silenzio. Per la maggior parte della società questi bambini sono (e dovrebbero restare) senza nome, senza volto, senza identità. Non sono, non sono stati, e dunque non meritano spazio, né riconoscimento. Il silenzio in questo caso è un’arma potente puntata dritta alla gola dei genitori: quando realizzi che la maggior parte di coloro che tacciono di fronte al tuo lutto e al tuo modo di viverlo, non acconsente affatto, perché molto più spesso nel nostro paese “chi tace sta zitto” e aspetta solo di poter cambiare argomento, impari tuo malgrado che il tuo bisogno di parlare, ricordare, celebrare, vivere il tuo lutto è considerato sbagliato, inappropriato, bizzarro. Come spesso accade nel nostro paese, in mancanza di risorse condivise e condivisibili, negli anni i genitori in lutto si sono “arrangiati”: ogni genitore ha fatto quel che poteva per affrontare la morte del proprio bambino e continuare a vivere, senza ricevere alcun tipo di supporto dalla comunità di appartenenza. Troppo spesso la scelta obbligata è stata quella di sposare il silenzio generale e vivere come sdoppiati: fuori, la vita che va avanti, a patto di non parlare della “brutta esperienza capitata“, dentro il logorìo sordo e profondo di chi desidera trovare spazio per il suo dolore e per la speranza di riuscire ad affrontarlo. Le conseguenze di questo abbandono culturale si leggono nelle testimonianze di chi non ha mai potuto elaborare il lutto e vive una condizione di perenne dolore e instabilità e nelle decine di mail che mi sono state inviate in questi anni da molte mamme di bambini nati morti in Italia prima che a morire fosse Lapo, mio figlio, prima che anche noi, come già era avvenuto in altri paesi del mondo cominciassimo a rompere il silenzio.
“Ah se ci fosse stato CiaoLapo, venti, diciotto, quindici, dieci anni fa – scrivono – avrei smesso di sentirmi pazza perché penso con amore al mio bambino nato morto e forse oggi sarei più serena”.
“E’ un sollievo leggere le stesse cose che ho provato dieci anni fa e sapere che potevo provarle, che non sono sbagliate”.
Come scrivono queste mamme, il silenzio-tabù, quello che con Return to Zero Sean Hanish si è proposto di rompere, è nemico giurato dell’elaborazione del lutto. Il silenzio indifferente e repressivo impedisce il processo faticoso e lungo dell’healing. L’healing è una condizione essenziale per attraversare il lutto senza troppe ammaccature ed ambire a una nuova vita piena di significato, evitando le trappole del lutto complicato. In Italia, culla delle lettere e delle arti, manca una parola adatta per tradurre propriamente healing. Mancano anche tutta una serie di parole correlate al lutto perinatale: manca una parola adatta per definire lo stato di genitore che perde un figlio, manca una parola adatta per descrivere il bambino che nasce già morto, manca una parola che descriva il lutto come un processo lungo e dinamico, meritevole di attenzione e rispetto. Una cultura che non ha le parole per dirlo, è una cultura che preferisce nutrire un tabù, a scapito delle persone. Il tabù è alimentato dalla falsa credenza che per superare il lutto si debba dimenticare il lutto, la persona amata, ciò che è andato perduto e guardare solo e inesorabilmente avanti. Se tolgo le parole per dirlo, se ignoro le decine di migliaia di esperienze di genitori che raccontano come sia stato importante per loro parlare, essere ascoltati, condividere, se evito di leggere tutti i libri divulgativi e tecnici sul lutto perinatale esistenti nel resto del mondo, se ignoro l’argomento sui media evitando di ascoltare ciò che i genitori hanno da dire su come è possibile e sano relazionarsi alle persone in lutto, allora posso illudermi che il problema non esista. Nonostante i numerosi traguardi raggiunti dal 2006 ad oggi, nonostante la rete sempre più fitta di genitori, familiari, amici, operatori della salute che hanno deciso di guardare oltre il silenzio e trovare le parole e i modi per stare accanto ai genitori in lutto, la cultura generale italiana è ancora restia a considerare il ruolo della società e della famiglia nell’elaborazione di un lutto. Il lutto resta un argomento scomodo, a meno che non possa essere spettacolarizzato ed estremizzato dai media, resta oggetto di tabù e di discriminazioni, anche nelle scelte dei palinsesti televisivi e delle case editrici. Sono pochi gli editori e i direttori televisivi che hanno lo sguardo abbastanza ampio da comprendere che il lutto, in quanto parte della vita, merita di trovare uno spazio all’interno della cultura di un popolo sempre più in difficoltà con le parole e con i gesti della quotidianità. Se solo foste venuti al RIFF, a Marzo, avreste visto coi vostri occhi il potere catartico ed educativo di Return to Zero:
‘Magari pensi di sapere cosa aspettarti da Return to Zero. Probabilmente pensi che si tratti di un paio d’ore di film triste che parla di argomenti tristi. Ma ti sbagli. Non faccio che spiegare continuamente che si tratta di un film ben scritto e magnificamente realizzato, nonostante l’argomento di cui tratta. E’ un film sulle relazioni e sull’umanità. Ed accade anche che il suo argomento lo rende un film in grado di stimolare conversazioni, cambiare vite e far guarire cuori.
Carrie Fisher Pascual Executive Producer, STILL Project
La mancata trasmissione di Return to Zero in Italia, nel giorno della prima mondiale è un’occasione persa, non tanto per i genitori in lutto, che possono contare sulla forza della condivisione promossa da CiaoLapo, e che comunque lo vedranno quando noi a nostre spese lo distribuiremo, ma per la nostra cultura generale. L’ennesimo atto di civiltà che scivola in un tabù, l’ennesima conferma che in Italia “chi tace sta zitto“.