Quando ho iniziato ad occuparmi di lutto perinatale nel 2006, molte persone, anche tra gli addetti ai lavori, hanno cercato di dissuadermi.
Il problema di cui intendevo occuparmi, secondo loro, non era infatti un VERO problema. Innanzitutto, perchè, a loro dire, troppo raro per costituire un problema. “Succede a pochissime persone, e quasi sempre per caso”.
Poi, perchè “i figli si rifanno” e quindi non si può parlare di vero lutto, anzi, meno ci si pensa, a cosa è successo, meglio è per tutti.
Infine, per molti era bizzarro che io, dopo la morte di mio figlio, volessi ascoltare altre storie di lutto perinatale e condividere la mia storia con altre donne. “Così rischiate di crogiolarvi nel dolore!-mi dicevano- bisogna guardare avanti, metterci una pietra sopra. Sono cose che capitano, e basta.”
Naturalmente, ho continuato a occuparmi di lutto perinatale nonostante i pareri contrari di molti colleghi italiani (mentre nel resto del mondo, centinaia di professionisti, ricercatori e genitori mi sostenevano con competenza e interesse); ho iniziato a raccogliere dati e a portarli in giro per congressi e per formazioni.
È capitato più volte durante questi corsi per “addetti ai lavori” che qualcuno alzasse la mano per condividere la sua versione del problema “lutto perinatale”.
“Le donne di oggi si disperano per la morte perinatale, perchè adesso non succede più: mica come prima, che le donne lo sapevano bene, ne morivano tanti, succedeva prima e dopo la nascita, succedeva anche di peggio (la morte della stessa madre ndr): le donne di prima erano abituate, soffrivano meno“.
Come potete immaginare, questa spiegazione mi ha molto colpito.
Si soffre dunque per qualcosa di straordinario, si smette di soffrire se diventa ordinario?
Si soffre solo per le eccezioni, mentre le regole le accettiamo con gioia?
Dunque, è possibile abituarsi con letizia a quel dolore che le donne (e i padri, anche) descrivono come un artiglio piantato nel cuore giorno e notte, per mesi, se non anni?
Dopo tre o quattro volte che ricevevo questa spiegazione al “fenomeno lutto perinatale”, ho iniziato a ripercorrere i miei dieci anni di “praticantato” come medico in formazione e poi specialista in formazione. Ho iniziato a pensare e a ri-cordarmi delle donne che ho incontrato sulla mia strada: le cose che ho chiesto, le cose che mi hanno risposto. Come mi hanno risposto.
Nel mio percorso di studi ho incontrato molte donne, di tutte le età. Donne ottantenni con molti figli e donne ottantenni senza figli vivi. Donne alla ricerca spasmodica di un figlio quando i trattamenti per l’infertilità erano agli albori, donne con esiti destruenti dei primi cesarei d’urgenza. Ho incontrato donne con malattie fisiche croniche o incurabili, donne con malattie mentali, e donne con gravi demenze. Nella mia esperienza di incontro e di infinite raccolte anamnestiche, non è mai accaduto che una di queste donne di quaranta, cinquanta, sessant’anni “dimenticasse” di raccontarmi quanti figli aveva portato in grembo, quanti ne aveva con se’, e quanti ne aveva persi. E perchè, erano morti. E a che età.
Non è mai accaduto, in dieci anni di corsia, che qualcuna di queste donne apparisse sollevata nel raccontarmi che aveva perso un figlio, o che era infertile, o portatrice di una patologia genetica incompatibile con la vita dei suoi figli. Non ho mai visto indifferenza, nel colore emotivo che accompagnava le loro risposte.
Eppure il luogo comune, le dipinge diverse da me, e dalle trentenni di oggi. Le dipinge “abituate”, “rassegnate” al fato, risolte e imperturbabili.
Mia madre ha perso mio fratello, prima di me. Il suo dolore, non è dissimile dal mio.
Certo, due donne non fanno una ricerca. Certo, sarebbe interessante raccogliere le storie delle donne che oggi sono quasi nonne o bisnonne.
Per offrire loro uno spazio “al di là del mito” che le vuole indifferenti e “abituate”; per offrire uno spazio autentico, di riflessione e narrazione.
Quando Claudia mi ha parlato del suo progetto mi sono illuminata d’immenso.
Che splendida opportunità per studiare il lutto perinatale e la perdita delle nostre madri e delle nostre nonne, per capire se è vero, che “soffrivano meno”.
Per capire se è vero davvero, che perderne molti è come non perderne nessuno.
Grata per la possibilità che Claudia ha offerto a CiaoLapo di collaborare al suo studio, ecco qua la presentazione sintetica e il contatto mail a disposizione di chi vorrà aiutarci a fare chiarezza su questo argomento.
“Sono un’antropologa culturale che lavora all’Università di Milano-Bicocca. Sto portando avanti una ricerca finalizzata a comprendere i cambiamenti nelle rappresentazioni, nelle pratiche relative alla morte in gravidanza e nell’esperienza di chi ha subito una perdita. La ricerca è realizzata attraverso interviste in profondità con donne e/o coppie che hanno vissuto una o più esperienze di aborto e/o morte perinatale.
Sono molto interessata a incontrare donne e coppie che hanno vissuto questi eventi prima della commercializzazione di contraccettivi moderni, della legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza e della diffusione dell’ecografia (in breve, prima della fine degli anni Settanta). Chiunque abbia vissuto una o più esperienze di aborto o morte perinatale, soprattutto in questo periodo, è invitata/o a partecipare perché le sue idee e le sue esperienze sono importanti. Questo il mio indirizzo e-mail: vi aspetto claudia.mattalucci@unimib.it “