Autobiografia di un amore
Questa è una parte della mia storia.
Ciò da cui tutto è cominciato.
Scritta in un soffio, chiusa in un cassetto e poi riletta, a distanza, dopo i mille giorni di dolore del lutto perinatale.
Succede qualcosa, mese dopo mese, anno dopo anno, nel percorso di lutto perinatale. Succede qualcosa che è trasformazione, conquista, e non solo sofferenza e dolore.
Ma è dal dolore che si parte.
Un dolore che affonda le sue radici nell’attesa e nella gioia. Un dolore ladro di spensieratezza e di normalità.
Da lì sono partita, anche io, nel 2006.
Attesa
1 Marzo Amore mio, oggi è il primo di Marzo! Siamo arrivati al non mese, tra poco nascerai, e io sono così impaziente! Non vedo l’ora di vederti, chissà se hai i riccioli, e gli occhioni scuri?
8 Marzo Festa della donna, festa del suo bambino tanto atteso! Ti ho comprato una tutina bellissima con la rana e la libellula, e un buffo ciuccio a goccia, ti piacerà? …Mi è venuta un herpes enorme alla bocca…ho bisogno di riposo e voglio essere bella e guarita quando nascerai.
9 Marzo Siamo andati al controllo dal ginecologo, che ha fatto la visita, misurato la pressione (bassa come sempre) e dato un occhiata a te. Abbiamo guardato il tuo volto, con le guance piene e la boccuccia da baci. Mi ha detto che sei così bello che sembri un angelo, e che non sono tanti i bambini belli così.
Sei un angelo? Sei il mio amore.
10 Marzo Mi cade dalla libreria la biografia di Isadora Duncan, comprata su internet anni fa. La leggo, sperando di conciliare il sonno. Scopro che Isadora ha avuto una vita piena di dolore, di cui nessuno parla. Ha perduto un figlio al parto, ha vissuto la gravidanza successiva isolata in campagna e, qualche anno dopo, ha perduto in un incidente d’auto tutti e due i bambini. Leggo, stanotte, come se non fossi io a leggere, appannata e ovattata dal silenzio della notte….dal silenzio della morte degli altri.
11 Marzo Amore oggi è sabato e si va a Firenze! C’è il sole, io sono piena di entusiasmo, anche se mi sento stanca. Ma tanto, a parte guidare il passeggino di tuo fratello, non devo fare nulla! La giornata scivola lieve nel tepore primaverile, andiamo in un negozio di libri per bambini, andiamo a pranzo fuori, ed io sbuccio tutta la mela con precisione (non si sa mai che la buccia sporca possa farti male!).
Arriviamo a casa, io e tuo fratello Giulio saliamo e preparo il bagnetto per il mio cavaliere senza macchia (!).
Oggi la pancia è pesante, sarà perché è scesa? Siamo già pronti, piccolo mio?
Stare a casa dal lavoro mi fa un effetto strano, mi sento stanca e assente da me….sarà questione di recuperare energie!
Stasera, sul divano, tu non fai come sempre.
Sono paralizzata da una paura che sembra vaga e indefinita.
Non so neanche dare un nome a questa paura, lontana anni luce dal mio conscio.
Chiedo al babbo di accarezzare la pancia, e gli dico: “Lapo non si muove mica tanto oggi”.
Lui mi rassicura, dice che è grosso, siamo in fondo e non devo preoccuparmi. Non lo faccio, e non potrei. Non sono presente, sto dietro a un vetro.
Tant’è che ordino su internet un meraviglioso e futuristico passeggino gemellare con doppia seduta.
Vi porterò fuori, con me, sempre.
Vado a letto, e dormo, di un raro sonno profondo.
12 Marzo Mi alzo con la voglia di mettere tutto in ordine, e così pulisco uno a uno gli animaletti di cristallo, pulisco le ruote della carrozzina, metto i lenzuolini puliti nel lettino.
Lavoro, lavoro per il tuo arrivo, tutto il tempo.
Dopo cena, guardiamo un programma tv di canzoni e balli che a Giulio piace moltissimo.
Anche stasera, mi sdraio sul divano e aspetto, ma tu non rispondi.
Cosa si fa in questi casi? Non so dirlo, non so proprio. Nessuno mi ha mai detto cosa fare in questi casi. Nessuno mi ha mai detto cosa pensare in questi casi, e quindi lascio che sia il mio istinto a guidarmi in questo non senso. Suonano we are the champion, Giulio balla felice.
Mi alzo e facciamo un lungo girotondo, tutti e tre insieme, prendendo velocità e ridendo.
“Balla anche tu, amore mio” è l’unica cosa che riesco a pensare.
Tramonto
13 Marzo 2006
Nottata agitata, per piccole contrazioni.
Una parte di me spera e cerca di convincere tutto il mondo a fermarsi e girare a rovescio.
Mi alzo e mi sembra di pesare una tonnellata, le gambe non mi reggono, e la pancia si fa dura.
Emozionati e increduli accompagniamo Giulio alla ludoteca e con la valigia in macchina ci dirigiamo all’ospedale. Mia madre vuole venire a tutti i costi, dice che si sente più tranquilla così. Abbiamo tre ore di tempo, prima che Giulio esca, e così ci avviamo. Il tuo papà, beata innocenza, fa il filmino di noi con la valigia. Mi sento rispondere qualcosa di vago, penso alla mia herpes che occupa tre quarti del labbro inferiore penso che forse va, forse no. Sono piena di vaghezza, mi sento preda di un automatismo. Faccio tutto, ma sono distaccata. I miei pazienti lo dicono sempre, si chiama depersonalizzazione, ma io non l’avevo mai provato.
Sarà l’ansia del parto? Si chiede la parte di me che si ostina a fare finta che nulla sia accaduto.
Fuori dall’ospedale, un enorme cartellone con due pesci morti, dall’occhio vitreo che pubblicizzano un supermercato, nel maldestro tentativo di rappresentare il vivace segno dei pesci.
Distolgo lo sguardo dalla morte, ed entro al pronto soccorso.
Mi affaccio allo sportello, spiego che ho le contrazioni e sono a 38 settimane più 3 di gravidanza. Mi fanno passare e vogliono mettermi sulla carrozzina. Io cammino benissimo, anzi, quasi corro. Ingresso nel reparto di maternità, sono seguita da uno dei vecchi leoni dell’ostetricia, mi fanno accomodare nella prima stanza a destra, nella prima poltrona a destra. “Facciamo il tracciato”. L’ostetrica, giovane tonda e riccia di capelli, armeggia nel silenzio. Intorno a me, altre madri, una aspetta il 4 figlio e ironizza sul fatto che ormai il parto non è più un segreto per lei. Io ascolto, da dietro il vetro, e guardo la mia pancia immobile.
“Questo bambino è proprio un monello, non riesco a trovare il battito, deve essersi girato, l’altra volta dove li avevano messi i sensori?”
Non c’è mai stata nessuna altra volta.
Non ci sei. Forse.
“Dobbiamo fare l’ecografia”
Tolgono le briglie, esco dalla porta. I miei sono fuori dall’ingresso del reparto. Faccio 10 passi entro nella stanza delle eco (forse è così che si sentono i condannati a morte prima di sedersi sulla sedia elettrica).
La ginecologa mi invita ad accomodarmi. Io ho le contrazioni e sono grossa, salgo sul lettino con la testa vuota. APNEA. Il monitor è girato verso la dottoressa, non ci sono monitor per i genitori, e quindi non ti vedo. Allora, guarderò la faccia della dott., mi concentro sulla sua bocca.
Espressione amara, sguardo corrucciato: – Mi dispiace non c’è battito. –
-Perché? Come è possibile?-, sento dire a una voce stridula e strozzata…NON sono io, questa.
-Signora adesso non cominciamo con le domande, non si può sapere di preciso e comunque mi dica da quanto è che non lo sente muovere perché non c’è più liquido.-
Dove te ne sei andato?
E’ stata colpa mia?
Volevo vederti ridere…
Il dolore è così forte che non fa nemmeno male, paralizza e basta. Sono congelata. La morte è entrata nel mio corpo, si è beffata di me, del mio essere madre, delle mie cure e dei miei progetti. E tu, bambino mio, invece di lottare, te ne sei andato, mi hai lasciato sola.
Io non ho saputo proteggerti.
Mi fai rabbia. Non mi hai dato nessuna possibilità.
Sento la rabbia per averti perduto, e mi odio ancora di più.
Il mio atteggiamento mentre mi vesto e salgo in camera continua ad essere remissivo e diligente: mi guardo da fuori, e mi vedo salire le scale, insieme a babbo e mia madre, e mi vedo cercare di consolarli. Adesso non vi preoccupate, state tranquilli. Non sento niente. Soltanto, voglio assicurarmi che alle 12 qualcuno vada a prendere Giulio alla ludoteca, come sempre. Sono le 10.45, c’è tutto il tempo.
Nella mia valigia per il parto mi accorgo che ci sono un sacco di cose inutili e mancano cose importanti. Ci sono vestiti e body in quantità, mancano la mia cartella clinica e le ciabatte. Posso anche andare scalza, e pestare tutto quanto. Non ho alcun minimio interesse riguardo a nulla che non sia partorire.
Adesso, devo, voglio, partorire mio figlio, senza anestesia (basta la mia) e senza cesarei. Voglio che mio figlio nasca come previsto, voglio essere la sua mamma fino in fondo. E poi, io, così paurosa di anestesie, medicine e complicanze, non voglio correre rischi: “Dopotutto, mi dico, lui potrebbe anche risvegliarsi…” Guardo ovunque, senza vedere nulla. Mi affido completamente all’ostetrica, e faccio tutto quello che mi dice. Voglio credere che lei sappia cosa succederà e cosa è meglio per me.
Voglio credere che si possa sopravvivere a questo congelamento istantaneo.
Non è solo il tuo cuore, che non batte più amore
Il mio, è morto con te.
Ho ricordi confusi del travaglio, e so nitidamente che ho sperato di non partorire in sala parto, ma in stanza travaglio, per poter stare lontana dalle altre donne.
Così è stato, tu sei nato, alle 13.25, in una stanzetta dalle pareti verdine illuminate dal sole. Sei nato, solo. Io, babbo e te.
L’ostetrica, voglio credere sopraffatta dal dolore è uscita per chiamare la dott. Tu sei uscito e ti sei appoggiato sul lettino, da solo, senza che nessuno ti abbia sostenuto.
Forse, i bambini morti, non hanno bisogno di questa cura?
Non hai pianto.
Ho sperato per tre ore, ininterrottamente, che avresti pianto. (Se non mi lamento e sopporto, forse cambia qualcosa e tu ti svegli)
Ho voluto fortemente vederti.
Ho dovuto combattere con le perplessità dei miei colleghi e del personale.
Ma solo per un minuto.
OK, solo per un minuto (cosa avrai di mostruoso?, che non posso vederti?).
Ti vedo arrivare, avvolto in un telino verde, con le guance grosse e la bocca imbronciata….sei arrabbiato con me? Hai pochissimi capelli, e un naso tondo e perfetto. Riesco a vedere le tue mani enormi e spalancate, guardo il tuo collo cicciotto, e penso che sei bellissimo. Sei bellissimo. Sfioro la tua pelle, tra la fronte e il nasino, e sei liscio e perfetto.
Come si fa a rimettere l’anima nel suo corpo? Chi mi aiuta?
Ti guardo e riesco solo a pensare che presto questo incubo finirà e tu ti sveglierai. Ti portano via.
Mi portano via, lontana da te. Non chiedo dove sei, non chiedo nulla. Non c’è spazio per le domande, c’è spazio per il vuoto, che infiltra in ogni angolo di me e della mia vita.
Continuo a pensare che forse ti risveglierai. In camera, di fronte a parenti raccolti al capezzale, faccio dichiarazioni estreme: mai più figli, troppo dolore, non è giusto.
Finalmente resto sola. Mi da sollievo sapere che babbo e Giulio sono insieme, che almeno una parte della mia famiglia è al sicuro.
Mia madre resta con me per la notte. Ho paura di restare sola, ho paura come da bambina. Non ho più certezze.
Di cosa si può essere certi, se la morte entra e ruba i bambini nelle pance delle loro mamme?
Terzo piano, camera da sei, vuota.
Momenti interminabili di nulla. Visite fugaci e inutili.
Notte dissociata. Dormo, piango, soffro, faccio la spola tra passato e futuro, mi chiedo cosa mi accadrà.
Mi chiedo se saprò essere ancora una buona madre, o se impazzirò.
Al mattino, chiamo il mio superiore.
Piango, mi dispero, e, a lui che è esperto, confido il mio timore: impazzirò.
Lui, mi dice, con una voce che non dimenticherò mai: le persone come te non impazziscono. E noi faremo tutto quello che va fatto per impedirlo.
Questo mi rasserena un po’. Ho bisogno che qualcuno mi rassicuri, perché adesso so che potrebbe succedere tutto.
Arrivano primario ed aiuti , ed io piango. Ho il cuore spezzato, e non posso averti.
Non voglio averti morto, penso.
Ho paura della morte, amore, non ricordi?
E poi, faranno l’autopsia. So cosa accade alle autopsie, le ho viste fare anche io nel corso di studi. Non voglio vederti DOPO.
Il tuo meraviglioso corpo tondo e forte, non posso accettare che finisca così.
Allora, insieme al tuo babbo, decidiamo di farti cremare, e di renderti libero nuovamente nel cielo.
L’idea del tuo corpo nella bara al cimitero è insostenibile.
Tu dovevi stare nella carrozzina come tutti.
Chiedo di poter mettere le tue ceneri insieme al nonno e a mio fratello, e questo è possibile. Il mio terrore adesso è che tu sia solo. Solo per sempre.
In sottofondo, dal secondo piano, le urla dei neonati nel nido.
La lunga notte
Se vuole le diamo qualcosa per dormire un po’, No grazie, non voglio prendere nessuna goccia di tranquillante, voglio solo tornare a casa, Il ritorno a casa sarà difficile, troverà solo una culla vuota, lei deve farsi seguire da qualcuno. Sì lo so, ci sarà la culla vuota e tutto il resto, ma non voglio stare qui, si sentono i pianti dei neonati del piano di sotto, il mio bambino non ha pianto, non voglio sentire piangere nessun altro, ma perché mi è successo questo? Resto fino a domani, va bene, sì per sicurezza, non voglio stare sola, non voglio gocce, non voglio dormire. Voglio mio figlio, ma non posso averlo, quindi che senso ha tutto questo dolore? Le ho portato le pasticche per mandare via il latte. Grazie, tanto ora non serve più, sono un’orfana nel corpo di una mamma…diventerò pazza, perché questo dolore è insopportabile, perché io ti volevo e ti ho perso, non ho saputo proteggerti, voglio tornare indietro e ricominciare tutto da capo, e fare tutto per bene, e impedirti di morire, amore.
Mi dimettono, dopo un colloquio volto a stabilire il mio livello di compenso psichico (e mi sento discutere di terapie, benzodiazepine e lutto in genere…come se non stessimo parlando di me e di mio figlio, ma di un paziente qualunque), e volto a rassicurarmi che sono sana come un pesce e che di sicuro è stato un caso e che non si ripeterà più: “COME FATE A SAPERLO?, penso, UN MEDICO SERIO SA BENE CHE IL CASO IN MEDICINA NON ESISTE, ESISTE L’IGNORANZA E L’IGNOTO”.
Riesco a tornare a casa. Mi sento pesa come un macigno, e svuotata fin nel profondo. Quel che resta di me, un imponente guscio femmineo da puerpera, esce dall’ospedale con gli occhi bassi per non vedere tutti quei genitori con quegli ovetti irriverenti. Li odio. Non sanno cosa può accadere, e stanno lì felici. Io, agli antipodi, li invidio.
In macchina, nessuna parola.
A casa, finalmente, arriva mio figlio Giulio. Ci abbracciamo per un infinità. A un certo punto lui chiede: mamma che hai? Dove è la pancia? So che è importante spiegare, lo amo troppo per pensare soltanto al mio dolore. Allora, prendo in braccio il mio piccolo ometto e spiego che la pancia non c’è più.
E il fratellino? Mi incalza lui
Amore mio, il fratellino Lapo era troppo piccolino e malato e quindi non è potuto restare con noi.
Perché? Quando torna?
Spiegare la morte a mio figlio è un impegno che mi assorbe per molti giorni successivi alla perdita di Lapo. Mi sono chiesta incessantemente, proprio io che avevo il terrore della morte, come si fa a raccontarla senza ferire i bambini. Tutta la protezione che non ho saputo dare a Lapo, ho voluto assicurarla a Giulio. Senza tabù, senza bugie. La natura, le stagioni, i fiori che appassiscono, i bruchi schiacciati sull’asfalto, gli insetti morti sul parabrezza. Nelle settimane a seguire, Lapo e la sua morte sono pane quotidiano nella nostra famiglia; domande, risposte, riflessioni, richieste e paragoni.
Tutti, come in una specie di staffetta olimpica, si alternano e ci sostengono. Non riesco a stare a casa.
Non riesco a stare in sala, perché vedere il nostro divano mi dilania il cuore.
Non riesco a sostare in camera tua, vorrei strappare via dal muro le decorazioni, le mensole, la striscia con gli animali dei ghiacci.
Non voglio mettere a posto le tue cose, non ancora. Arriverà un momento, forse, ma non è questo.
Andiamo all’anagrafe per certificare che sei nato morto e che noi siamo i tuoi genitori. Odio tutti, rifuggo le donne in gravidanza e le mamme coi neonati vivi. L’impresario di pompe funebri che ci accompagna, ci racconta che anche lui ha perduto due bambini, e di quanto sia stato duro. Ci dice che oggi sono genitori di due figli, e che per loro parlare con un padre spirituale è stato molto importante. Gli affido la bara di mio figlio (dopo aver inveito sull’urna, perché ne volevo a tutti i costi una da bambino e non da vecchio) e gli chiedo di accompagnarlo al cimitero.
Il giorno del funerale è venerdì 17.
…Piccola scatolina con l’angioletto azzurro (l’ha trovata, una scatolina da bambino!)… il mio Piccolo Principe dormirà insieme ad un sacco di gente…con lui, abbiamo messo la mia copia del Piccolo Principe di Saint Exupery. Così il nonno ve lo leggerà, a te e a Marco, e voi due passerete il tempo.
Ti abbiamo amato e resterai con noi per sempre Il tuo papà e la tua mamma
Da quel giorno ad oggi, sono passati 3 anni e mezzo. La lunga notte ha lasciato, finalmente, spazio, alla luce rosa dell’alba. Porto mio figlio nel cuore, nei miei passi, tra le mani.
Ho imparato ad amare l’amore difficile.
Dedicato a tutte le donne e a tutti gli uomini che oggi, affrontano l’amore difficile.
Claudia