Sebbene questa affermazione abbia un fondo di verità, ancora troppi sono gli equivoci ed i fraintendimenti intorno al “dolore” nel nostro paese. Un paese, vale la pena di ricordarlo, dove il dolore trova spazi sempre più risicati e sempre più ghettizzati. Il dolore non può sedersi in piazza. Il dolore, ospite inviso ai più, dovrebbe essere vissuto privatamente. O al limite, se uno proprio non ce la fa con un terapeuta. Il dolore, dunque, lungi dal dover essere oggetto di cure, dovrebbe piuttosto essere curato, come si fa con le malattie. Senza tuttavia esserlo.
Il dolore nel nostro paese non può essere libero di circolare in quanto tale, ma deve essere preferibilmente trattenuto dentro, aspettando che passi (passa, così gestito?). Perchè le persone, quelle “forti”, riescono a superarlo da sole, nell’intimità ordinata della loro disperazione. Se esistesse un diario degli equivoci sul dolore, ai primi posti ci sarebbe senz’altro il vetusto equivoco della “forza d’animo”, per cui il dolore provato è inversamente proporzionale alla forza d’animo: più dolore provi, meno forte sei. Decine di lavori accademici su questo equivoco ci dicono cose molto lontane da questo assioma, ma il binomio forza-dolore resiste, tronfio, nella nostra cultura. Pensiamo per un istante ai padri in lutto e alla loro fatica di essere al contempo, in lutto e forti. Pensiamo a quanto innaturale (e sadica) suoni questa richiesta. Pensiamo a quanto sia sofferente una società che chiede a un padre orfano di “farsi forza” e tornare quello di prima, magari per la moglie.
Questi equivoci culturali, fino a una ventina di anni fa, cioè prima che internet fosse tutto intorno a noi, venivano sussurrati a denti stretti in piazza, in chiesa o al bar, quando ci si “prendevano” confidenze con i dolenti e si elargivano loro, spesso sommessamente ma quasi sempre occhi negli occhi, “strategie” di reazione al dolore. Come dire, esistevano queste credenze, erano già lì belle che attive, ma si trasferivano per contiguità, da persona a persona, con una rassicurante lentezza. In ogni caso, c’era la possibilità di incappare nello stesso giorno, in persone con credenze sul dolore molto diverse. Era possibile poter fare singole esperienze in merito, sia positive che negative e in qualche modo avere il tempo, il modo e la forza di poter filtrare, rielaborare, persino fare tesoro dei “consigli” ricevuti, anche quando non del tutto richiesti.
Oggi no.
Negli ultimi dieci anni è esplosa l’epidemia social: gli equivoci oggi sono urlati, dichiarati, rinforzati, picchettati e strenuamente difesi, da orde di Gine-Pine-Line e di Gini-Pini-Lini spesso del tutto sconosciuti al dolente, in un “tutti contro tutti” avvilente e svilente. Tutti pronti a dirti se il tuo dolore è giusto. Tutti pronti a dirti quanto deve durare. Tutti pronti a darti il consiglio del secolo per “superare”. Tutti pronti a chiederti perchè “eri già così affezionata”, o perchè “soffri, visto che già sapevi come sarebbe andata a finire”- Alcuni persino pronti a strumentalizzare il tuo dolore e a cavalcarlo, per fini personali. Tanto clamore, tanto giudizio, pochi strumenti disponibili per elaborare il lutto. Trovarsi in mezzo a una shitstorm (prendo a prestito questa definizione, che sta a indicare un altro genere di attacchi social, perchè secondo me tempesta di merda calza a pennello sulla qualità di ciò che emerge da certi polifonici cori greci sul dolore e il lutto) è esperienza traumatizzante: divenire oggetto di critiche e discredito per la propria personale esperienza di dolore, che spesso viene bullizzata dall’esercito di Gine-Pine-Line sempre in prima linea sul web, confonde i dolenti e aggiunge un altro dolore, autentico e genuino, al dolore che già portano.
L’esercito delle Gine-Pine-Line riduce la fiducia non solo nel mezzo social, ma anche nel genere umano, qui rappresentato in una delle sue facce peggiori, quelle degli autori di cotanti e feroci attacchi.
I dolenti, quando ce la fanno a difendersi, battono in ritirata da facebook, dai gruppi, dai forum, dalle pagine, dalle chat e si auto-confinano in una vera e propria terra di mezzo. A volte, quando hanno più risorse, vanno a cercarsi altri gruppi, altri forum, altri luoghi per il loro dolore, luoghi in cui l’esercito delle Gine-Pine-Line non riesce a raggiungerli. Quando questo accade, i dolenti possono contare di risorse appropriate alle loro necessità e concentrarsi nell’esperienza di elaborazione del lutto.
Molti dolenti alla lunga (per i tempi del web, la lunga può essere anche pochi mesi, al massimo un anno) si convincono, sempre grazie alle Gine-Pine-Line che come la gramigna infestano il web e la piazza, che il loro dolore e il loro modo di viverlo ed esprimerlo, sia sbagliato. Da qui il ricorso incerto a terapeuti, per una “malattia” che è in gran parte social(e).
Il dolente, in questi casi, è come il paziente designato delle teorie sistemiche: viene lui, in cura, ma il vero malato è il sistema. Nel lutto, spesso, il vero malato è la comunità (reale e virtuale) di appartenenza del dolente, che semplicemente, si rifiuta di mollare gli equivoci culturali cui la nostra società è così affezionata e li propina al nostro malcapitato, come fossero verità assolute. (L’aborto spontaneo non è un lutto vero) Come il dolore fosse unitario ed uniforme. Come se non fosse un intreccio di esperienze soggettive ed oggettive.
Il dolore quindi è universale? Lo è, lo proviamo tutti, ma il cappotto con cappuccio che gli infiliamo sopra è invece squisitamente personale.
Il cuore del dolore è universale. Come lo vestiamo è personale. Se vogliamo parlare di dolore tra pari, dobbiamo quindi compiere questo “spogliarello” mentale, toglierci di dosso gli strati di vestiti con cui abbigliamo il dolore, e poi metterli tutti in fila in ordine, possibilmente a vista. Potremmo scoprire, ad esempio, di avere indossato per anni una maglietta alla rovescio, o che le nostre calze sono bucate, che la gonna che ci andava tanto bene in adolescenza, adesso è scomoda. O che i nostri pantaloni da cavallo, che tanto ci sono serviti per il nostro dolore, alla nostra paziente fanno schifo, talmente schifo che nemmeno le entrano. O come sarebbe bello, poter fare periodicamente questo spogliarello di tutte le cianfrusaglie che ci siamo messi addosso, spesso alla rinfusa, o che ci hanno messo addosso, nottetempo, mentre eravamo distratti o addormentati o a nostra volta troppo in lutto per poterci scegliere i vestiti del dolore in autonomia.
Perchè il dolore divide così tanto? Perchè il dolore, che è universale, ci isola?
Perchè risulta impossibile, oggi, poter discutere del dolore, proprio ed altrui, con amabile rispetto e cognizione di causa?
Perchè tutti sembrano avere cognizione di causa sul dolore altrui, al punto da potersi permettere vere e proprie incursioni nelle vite degli altri?
Perchè di fronte al dolore non nostro, diventiamo tutti elefanti (molto molto sordi) in cristalleria, inconsapevoli e incuranti dei danni che facciamo?
C’è una parte, consistente del nostro cervello predisposta alla relazione con l’altro.
Alla relazione “di rispecchiamento”, focalizzata sull’empatia, e sulla sintonizzazione.
Questa funzione è un po’ come il volume dell’autoradio: alcuni hanno autoradio molto efficaci che regolarizzano il volume automaticamente (beati). Alcuni hanno un tasto volume bloccato sul massimo e sentono “la radio” sempre e solo ad alto volume. Altri hanno la manopola bloccata sul minimo: il volume è così basso da sembrare sempre spento, come se tutto arrivasse da molto lontano, come se non stesse dicendo proprio a loro.
Chi viaggia col volume troppo alto è rumoroso anche nelle sue reazioni al dolore degli altri: vuole dire, vuole fare, vuole risolvere, vuole consolare, vuole accelerare i tempi, memore di “quella volta che è accaduto a lui”.
Chi viaggia a basso volume, invece, spesso il dolore non lo vuole proprio neanche vedere. Preferisce concentrarsi su altro, sulla burocrazia, sulle possibili soluzioni pratiche, su una cura, magari farmacologica, o un viaggio, ecco, una bella vacanza e poi pronti a ripartire. Preferisce assentarsi dalla vista del dolente, stare a debita distanza.
Avere la rotellina del volume sregolata è cosa socialmente molto frequente. Spesso sregolati un pò “si nasce”, e la vita (leggi: parenti/serpenti, maestre di scuola, amici, fidanzati etc) si impegna e mette sopra alla sregolatezza il suo carico da novanta, a completare l’opera. Spesso si nasce sregolati e in virtù di questa sregolatezza scegliamo mestieri “ad hoc”: quasi sempre hanno a che fare con il prossimo, quasi sempre con la cura, quasi sempre in un modo in cui non è chiaro fino in fondo “chi cura chi”, e come affrontiamo gli inevitabili quintali di dolore che ci arrivano dal prossimo. Spesso si è sregolati, ma non lo sappiamo. Viaggiamo ancora con la camicina della fortuna che ci hanno messo da neonati, e sopra il grembiule della scuola materna, e sopra la tuta da sci della vacanza a Bormio degli anni ottanta, e sopra il vestito da sposa, e sopra la camicia da notte con cui abbiamo partorito, ma non lo sappiamo consapevolmente: “Io sono fatto così, mi prendo a cuore i miei pazienti e non ho pace finchè non tornano a sorridere”, potrebbe dirmi (mi ha detto) un collega, e un altro, invece potrebbe dirmi (mi ha detto) “Nella vita c’è sicuramente di peggio, se la signora non riesce a superare questo incidentino di percorso, allora vuol dire che sotto ci sono altri problemi, di sicuro“.
Spesso, chi viaggia con il volume alto, finisce per diventare sordo. E’ un effetto collaterale noto come burnout.
E’ quello che accade a chi vive il lutto degli altri ogni volta come il megafono dei propri. E’ quello che accade a chi si concentra sul lutto degli altri per non sentire il proprio dolore interiore che morde, urla e graffia e si dona al prossimo anche quando non ha per se un briciolo di energia residua.
Spesso invece, chi viaggia a volume basso, finisce per diventare ipersensibile ad ogni nota leggermente più alta, e finisce col diventare, anche lui, intollerante al dolore degli altri. E’ un altro effetto collaterale noto come burnout.
Ne sono certamente più colpiti gli addetti ai lavori (infermieri, ostetriche, medici, psichiatri e psicologi, maestre e professori di scuola), ma ne sono parimenti colpiti i caregiver delle persone con disabilità croniche e invalidanti. La nostra società che certamente non è interamente composta da queste categorie professionali e da caregiver, è una società così poco accogliente nei confronti del dolore in generale e di chi lo porta da risultare inappropriata nella sua funzione contenitiva ma anche creativa, sia per i dolenti che per i vari curanti/caregiver.
Come favorire allora il riemergere dell’universalità del dolore?
Come aiutare le persone, soprattutto curanti e caregiver a sintonizzarsi sul dolore degli altri e sul proprio a volume giusto?
Come aiutare le stesse persone a spogliarsi mentalmente delle loro inutili e controproducenti sovrastrutture?
Ce ne occuperemo nel corso del 2018, con apposite formazioni, con articoli divulgativi e con alcuni strumenti più pratici, per pro-muovere l’accoglienza non giudicante ai dolori propri e altrui tra gli operatori e in società.