Le madri, le vite, i dolori, le parole che curano. Una storia.
Ti pensavo.
Non ti conosco personalmente ma ti pensavo.
Vedo che non pubblichi più nulla nei social e un po’ mi manca non vedere più le tue creazioni online.
Tu non lo sai, ma noi due abbiamo molto in comune. Più di tutto il dolore. Più di tutto il silenzio.
Ho visto il tuo post dove annunciavi il tuo lutto, e ho pianto con te.
Lo stomaco mi si è ristretto e le tenebre sono scese anche su di me.
Ho letto e riletto le tue parole, ho visto l’immagine della mamma orsa con in braccio un bimbo. Ho
sbirciato i commenti. Qualcuno l’avrei cancellato io per te. Qualcuno mi ha fatto sentire meno sola.
E di getto, ho commentato anch’io.
Poi sono stata distratta dal suo pianto e ho ricominciato a respirare.
Non ti dico che sono andata a prenderla, l’ho abbracciata e ho pensato a quanto sono fortunata.
Primo perché non è stato così. Secondo, perché queste cose non si dicono a chi ha appena perso un figlio.
Non si dicono perché rincuorano solo chi ha in braccio il proprio figlio, non chi invece ne avrebbe bisogno.
Ti dico invece che sono andata a prenderla, l’ho abbracciata e ho pensato che lei è anche il tuo futuro.
Che c’è un futuro.
Anche se ora non ti interessa , anche se ora non ci credi.
Non ricordo come sono arrivata a seguire il tuo profilo.
La tua gallery è sempre stata molto dolce.
Foto piene di colori che trasmettevano leggerezza e pace.
Colori pastello, fiori, cibo. Collane, orecchini, borse e poi avevi iniziato anche con l’abbigliamento.
Ogni foto mi faceva sognare.
Credo ne pubblicassi quasi una al giorno. O poco meno.
Poi il buio.
Una ventina di foto in sei mesi.
Foto malinconiche come il mare d’inverno, un’ala spezzata, un vaso rotto, una mano vuota che accarezza la neve, un cielo dopo il temporale.
Come se stessi gridando il tuo dolore attraverso quelle immagini.
Come se volessi reagire, uscire dalla nebbia fitta, ma ne fossi ancora imprigionata.
Qualche spiraglio di vita quotidiana, e poi, ancora silenzio.
Ho commentato solo il tuo primo post. Ma li ho letti tutti.
Ti ho scritto due parole su un’associazione.
Dopo poco tempo ho letto che scrivevi di questa associazione, e anche se non sarò stata l’unica a suggerirtela, mi sono sentita utile.
Non so perché mi sono presa a cuore la tua causa. Sarà che continui ad essere una ragazza discreta in quello che scrivi.
Avresti il sacrosanto diritto di rispondere male, arrabbiarti, insultare.
Invece mantieni questo profilo elegante. E malinconico. E semplice.
Io non conosco il tuo dolore.
Credo sarei morta al posto tuo.
Arrivare a fine gravidanza e sentirsi dire che il battito non c’è più.
Io una come te la chiamo solo guerriera.
Ma, nel mio piccolo, so cosa significa non riuscire più a respirare bene.
Deglutire a metà.
Ascoltare una canzone e trovarsi in lacrime.
Trovarsi in lacrime anche senza ascoltare alcuna nota.
Sentire la rabbia montare dentro.
Aver voglia di rompere qualcosa e mandare tutti a quel paese.
E sentire un pugno, proprio lì, in mezzo allo stomaco, ogni giorno, anche solo per una frazione di secondo. Ma costante. Ogni volta che inevitabilmente lo pensi.
Io sono una mamma bis, ma posso abbracciare solamente uno dei miei figli.
Al quinto mese di gravidanza, dopo due estenuanti mesi di visite e incertezze, ho scelto di non proseguire per un grave problema genetico del bimbo.
Ho scelto. Una non scelta.
E questa scelta la porterò con me per tutta la vita.
Ho partorito. Ho travagliato e partorito.
Da sola, o meglio, in una camera di reparto con sei estranee, senza mio marito affianco.
Come se fossi una mamma di serie B.
E ci vorrà ancora tanto tempo per rielaborare tutto quello schifo.
Quando ho saputo di aspettare mia figlia erano tutti felicissimi. Increduli. E… impauriti.
Mi ha sempre fatto sorridere il fatto che fossero loro ad essere impauriti.
In verità no. Non mi faceva sorridere. Mi innervosiva.
Mi innervosiva il fatto che fossero loro i primi ad andare cauti.
Io invece ero tranquilla. Sai perché?
Perché avevo già vissuto il peggio.
Ero sopravvissuta alle tenebre e non mi facevano più paura.
Ripetevo sempre a mio marito che ero pronta se doveva succedere nuovamente. Ero fredda.
Distaccata.
Era tutto diverso dalla mia prima gravidanza ed era così tutto uguale.
Non vedevo l’ora che i mesi passassero.
Vedere la mia pancia crescere.. era una cosa che non mi interessava.
Non mi interessava vedere il mio corpo cambiare.
Io l’avevo già visto.
Io volevo partorire un figlio vivo. Volevo abbracciare la mia bimba.
Ero felice di aspettare una bimba, perché mi sentivo più tranquilla di non correre il rischio di confondere le due gravidanze ma, inevitabilmente ad ogni ecografia (almeno fino al quinto mese) era come un flash back.
La prima cosa che le dissi quando scoprii che attendevo una femminuccia fu: “sappi che noi donne dobbiamo essere molto forti. TU devi essere molto forte.”
Il primo periodo piangevo molto. E mi scusavo con lei, perché lei non c’entrava niente.
Lei non doveva sentire la sua mamma piangere mentre era in pancia. Lei doveva sentire la gioia.
Io ero felice. Ma non riuscivo a smettere di piangere. Era più forte di me.
Continuo a credere che tutte le lacrime che ha versato mia figlia i primi mesi di vita, siano le lacrime che ho pianto io mentre aspettavo lei e pensavo a lui.
Passato il quinto mese e visto che tutto stava procedendo bene ho iniziato ad essere più realista e ho iniziato a parlare con lei, a sognare, a progettare.
Mai troppo a lungo termine però. Anche dopo che è nata, non riuscivo a ragionare a lungo termine.
Non facevo progetti perché mi aspettavo che da un momento all’altro tutto finisse di nuovo.
A fine gravidanza ero così stanca: io ero incinta da 14 mesi.. non ne potevo più.
Volevo partorire. Non pensavo alla vita dopo il parto. Pensavo solo al parto, come se dovessi finire una cosa che non ero riuscita a terminare la prima volta.
Ho bene impressa l’ultima frase che mi disse l’ostetrica prima della mia ultima spinta.
Mi disse di pensare a una cosa bella o brutta che mi desse la carica per spingere un’ultima volta.
In quella spinta riversai tutta la mia rabbia e il mio dolore.
E così, pensando a lui, nacque lei.
La mia principessa.
Molte volte mi soffermo a guardarla incantata. E a pensare a lui.
So che sono due identità distinte. Ma.
Penso spesso chissà lui come sarebbe stato. Se più tranquillo o ancora più scatenato.
Non voglio che lei cresca all’ombra di suo fratello, ma in occasione della giornata mondiale di sensibilizzazione sulla perdita perinatale, per la prima volta abbiamo parlato di lui con lei.
Io e mio marito abbiamo acceso una candela fuori sul marciapiede di casa e con voce strozzata le abbiamo detto che accendevamo una candelina per il suo fratellino.
Lo so. Lei a solo 10 mesi non avrà capito. Ma… chi lo sa.
Pochi giorni fa è stato il suo primo compleanno. Sono andata a prendere tre palloncini bianchi e tre
rosa. Mettendoli in macchina un palloncino bianco è volato via.
Ho subito pensato che fosse lui che da lassù volesse festeggiare la sua sorellina.
Le cose qui sono cambiate. Io sono cambiata.
Le priorità della vita per esempio.
Ora le cose le valuto importanti o meno in base ad un criterio diverso.
Mi agito meno facilmente, più che altro bilancio tutto quello che mi capita con ciò che ho attraversato.
Nessun ostacolo sarà mai paragonabile all’enorme montagna che stai scalando.
Ora sei ancora in salita. Non mollare.
Come avrai potuto intuire, lui c’è in ogni cosa.
E lei non ha spazzato via tutto il dolore. Non me l’aspettavo. Non so se chi ci circonda creda sia così.
Mi sono chiesta centomila volte perché fosse successo a noi. Non avevo mai trovato una risposta che mi convinceva.
Da quando c’è lei, mi rispondo che se non fosse successo, non l’avremmo conosciuta.
E sarebbe stata una vita proprio vuota.
Questo è il mio perché. E per ora mi basta.
Io e mio marito lo chiamavamo Olaf ma speravamo di dargli il nome di Tommaso.
Quando ero in attesa di Olaf, sebbene me lo sentissi di aspettare un maschietto, avevamo fantasticato anche in merito ai nomi femminili.
Olivia sarebbe stato il nome prescelto.
Nel novembre 2015 quando ormai erano passati 7 mesi dalla perdita di Olaf, ho acquistato due collane nel tuo sito.
In verità le avrei acquistate tutte. Ma ce n’erano due che adoravo e continuavo a guardare.
Una l’avevi chiamata Olivia.
Un anno dopo Olivia sarebbe stata qui con noi.
Ecco cosa ci accomuna.
Olivia.
La tua donzella, così chiami le tue collane.
La mia donzella arcobaleno.
Mi piace pensare che anche tu abbia contribuito inconsapevolmente alla mia risalita.
Per questo motivo, quando ho letto della tua disgrazia, ho voluto scriverti queste poche righe.
Perché tu possa credere che un futuro c’è. Qualsiasi strada sceglierai.
Perché tu non abbia paura. Di ricominciare, da te stessa, dalla tua attività, dalle tue passioni.
Perché sebbene non passerà giorno che non penserai a lui, si può andare avanti. Piano piano, senza fretta. Sebbene tu abbia una ferita sempre aperta.
Ce la farai.
Credimi.
Da Mamma a Mamma.
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*Racconto donato a CiaoLapo da Valentina Mazzon, che ringrazio per la generosità e per l’onesta delicatezza delle sue parole.